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The Burden of the
Italian man

DI MARCO CARAGNANO

02/03/2020

I primi due mesi del 2020 sono stati molto movimentati per la politica estera italiana: la crisi in Iran, i problemi legati al Coronavirus e, ovviamente, la crisi libica. Quali sono i motivi che modulano l’attività diplomatica italiana in Libia? Quali risultati ha prodotto? Con quali altri attori geopolitici dovremo confrontarci?

Anche se molte volte non si è capaci di ammetterlo, l’Italia ha grosse responsabilità nei confronti della Libia: è come se il “Fardello dell’Uomo Bianco” di Rudyard Kipling venisse riproposto in salsa italiana.

È dal 146 a.c., anno in cui i Romani occuparono la “Tripolitania”  che questa immensa porzione di territorio africano rientra nella nostra orbita geopolitica, strategica e commerciale. In effetti, da allora nessuna stagione di politica estera italiana è stata avulsa dalla “questione libica”. Ci eravamo illusi per qualche secolo, durante i quali la Libia rimase sotto il dominio arabo-ottomano, ma ecco che nel 1911 essa ritornò ai suoi “legittimi proprietari” fino al 1947, quando fu spartita in diverse zone di influenza, rispettivamente controllate da Gran Bretagna e Francia sotto il vessillo delle neonate Nazioni Unite.

C’est le pétrole qui fait la guerre!

Nel 1966, dopo una breve indipendenza retta da un regime monarchico, il generale Muhammar al’ Gheddafi ottenne il controllo del Paese tramite un colpo di Stato. Sotto il suo controllo furono scoperti importanti giacimenti petroliferi che fecero gola alla stragande maggioranza dei Paesi stranieri, tra cui ovviamente l’Italia. Il Belpaese infatti sfrutta dagli anni Sessanta i giacimenti libici (specie quelli nell’hinterland tripolitano, nella Cirenaica e nella parte meridionale del Paese) tramite l’ENI, producendo all’incirca 31 milioni di barili l’anno. Quello libico è uno dei petroli più pregiati al mondo, e si rivelerà essere il motore principale degli inteventi italiani in Libia. Fu infatti per il timore di veder danneggiati gli impianti dell’ENI che nel 2011 l’allora premier Silvio Berlusconi offrì le basi aeree e navali italiane alle forze francesi, britanniche e americane (impegnate in una guerra volta a deporre il “Raìs” Gheddafi), violando il cosidetto “Trattato di Amicizia” stipulato proprio con il generale l’anno prima. Le conseguenze dell’offensiva sono ben note: Gheddafi fu deposto e ucciso, nel 2015 il governo di unità nazionale presieduto da Fayez al-Sarraj diventa l’unico internazionalmente riconosciuto e le forze dell’Esercito Nazionale Libico guidate dal generale Khalifa Haftar continuano a minare la stabilità della Libia e a guadagnare sempre più potere e influenza.

La Libia dunque è biforcata: gli schieramenti, seppur labili, vedono da un lato Russia, Egitto, Francia e Arabia Saudita sostenere le milizie haftariane, dall’altro il Governo di Accordo Nazionale di Sarraj riconosciuto da ONU, UE, Turchia e, fino al 2019, dagli Stati Uniti.

In tutto questo, dove si colloca l’Italia?

Per quanto ci crediamo assolti, saremo sempre coinvolti.

Come detto precedentemente, la Libia è un fardello del quale la politica estera italiana difficilmente potrà liberarsi: l’Italia, come tutti i Paesi coinvolti, ha in Libia ingenti interessi da mantenere floridi e stabili. Tuttavia, a differenza degli altri stati, non riesce a condurre una strategia forte, indipendente, decisa. Fin dal secondo dopoguerra l’Italia, per ovvi motivi, ha dovuto accondiscendere alle volontà degli americani, rimanendo ancorata alle strategie dell’Alleanza Atlantica e dell’ONU. Tuttora l’Italia sostiene “tacitamente” il governo di al-Sarraj. Lo sostiene soprattutto perché, tra i tanti motivi, è stato il Premier libico ad essere il principale interlocutore quando, nel 2017, fu stipulato il famigerato Memorandum d’Intesa con Marco Minniti, Ministro dell’Interno del Governo Gentiloni. Tale memorandum, rinnovato tacitamente il 2 Febbraio scorso, impegnava Roma a finanziare la guardia costiera di Tripoli, nell’ottica di contenere quanto più possibile le partenze di centinaia di migliaia di migranti via mare verso l’Italia. Come detto precedentemente, il nostro Paese ha ulteriori interessi in Libia; paradossalmente i timori per i quali l’Italia aiutò la NATO nel 2011 (vale a dire, la perdita dei nostri investimenti locali) non risultano cancellati neanche ora, 9 anni dopo il conflitto. C’è un motivo per cui l’Italia non sostiene Fayez al-Sarraj  con la stessa enfasi che ci mettono i turchi, lo stesso motivo per cui nel Gennaio 2020 il premier Giuseppe Conte e il Ministro degli Esteri Luigi di Maio hanno spinto per una cosidetta “soluzione politica” tra le due fazioni che si contendono il governo della Libia: le milizie di Haftar al momento occupano la maggior parte del territorio libico, inclusi ovviamente numerosi impianti petroliferi. L’avanzata e l’influenza dell’Esercito Nazionale Libico sembrano inarrestabili, tant’è che da settimane le truppe di Haftar assediano la capitale Tripoli. Se a ciò si aggiungono il sostegno oneroso da parte degli arabi e dei russi, l’apporto notevole per il ridimensionamento dell’ISIS nel Paese e il carisma del maresciallo, gli odierni timori nello Stivale sembrano più che fondati. A ulteriore dimostrazione di ciò è stata la chiusura di molti oleodotti da parte degli haftariani, che ha costretto l’ENI a rinunciare a numerosi suoi pozzi.

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Quando una semplice foto testimonia la realtà.

Gli sforzi italiani di appacificare al-Sarraj e Haftar sono culminati nella conferenza di Berlino (vi ricorda qualcosa?), tenutasi nella capitale tedesca il 20 Gennaio 2020. Tale conferenza non ha portato a nessun effetto significativo, tant’è che l’episodio di cui si è più discusso non riguardava il sostegno all’una o all’altra fazione, né se valesse la pena proseguire una mediazione tra le due, bensì la confusione mista ad imbarazzo del nostro Presidente del Consiglio relegato in seconda fila durante i preparativi della foto di rito.

Ecco, ironia a parte, questo episodio testimonia l’inadeguatezza dell’Italia a imporsi nel “pantano” libico. Secondo alcuni, il continuo valzer di conferenze irrisolte ridicolizza il ruolo di un’Italia e di un’Europa sempre meno decise, ormai abbandonate a loro stesse da quando gli Stati Uniti sotto Donald Trump hanno cambiato strategia, isolandosi ma comunque evitando di appoggiare il GNA, simbolo dell’Islam politico. Nel bene o nel male, l’Italia rimane storicamente e geopoliticamente legata alla Libia: con il Memorandum, l’Italia si è resa implicitamente complice delle sevizie con le quali le milizie libiche torturano i malcapitati nei loro lager; il tutto perché ci sono interessi da tutelare e c’è una credibilità internazionale da riacquistare (sempre se ci sia mai stata). Nel frattempo, Russia e Turchia guardano dalla finestra, già pronte a mettere le mani sulla nostra “Quarta Sponda”.

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