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Greenwashing e perché di green c’è ben poco

DI SARA BARONE

18/02/2021

Il greenwashing è una strategia di marketing sempre più utilizzata da grandi e piccoli marchi fondata su chiari ed immediati claims di eco-responsabilità, ambientalismo e sostenibilità che però, in realtà, in termini di sostenibilità lasciano ben a desiderare.

Cosa è il greenwashing?

Il Concise Oxford English Dictionary lo definisce “la disinformazione divulgata dalle organizzazioni così da presentare un’immagine pubblica ambientalmente responsabile”; l’ Urban dictionary spiega che è greenwashing il comportamento delle aziende che fingono di essere environmentally friendly quando poi, nei fatti, non lo sono.

Comunque lo si voglia definire, il greenwashing è ad oggi una strategia di marketing sempre più utilizzata da grandi e piccoli marchi fondata su chiari ed immediati claims di eco-responsabilità, ambientalismo e sostenibilità che però, in realtà, in termini di sostenibilità lasciano ben a desiderare. Creare una green reputation, raggiungere un target più attento e scrupoloso nella sostenibilità ed ecologia, differenziarsi dalle aziende concorrenti, nonché generare più ampi profitti, sono solo i principali obiettivi dei greenwasher. Ma soprattutto, le abitudini d’acquisto sono cambiate: negli ultimi anni la stragrande maggioranza delle persone, preoccupata dei problemi sociali e ambientali e desiderosa di una migliore qualità della vita, ha iniziato a modificare le proprie abitudini di acquisto e consumo, affidandosi a marchi bio o più sostenibili. Dunque, le aziende si sono mobilitate in tal senso per soddisfare i propri clienti.

Il greenwashing può essere realizzato a livello di prodotto o a livello di impresa. Il primo caso consiste nel trasmettere informazioni non veritiere sulle performance ambientali del prodotto; mentre il greenwashing a livello di impresa si concretizza in due comportamenti: scarse prestazioni ambientali e comunicazione positiva sulle proprie iniziative ecologiche.


Quali sono le origini del greenwashing?

Le origini di questa strategia risalgono agli anni ’70 e ’80, quando vi si ricorreva per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media dall’impatto ambientale negativo e talvolta distruttivo di alcune attività produttive. Il termine specifico, poi, viene coniato negli anni ’90 e nasce dalla combinazione di due parole: green (verde) — il colore associato all’ambiente e al movimento ambientalista — e whitewashing, che si usa negli Stati Uniti per indicare azioni fatte per «dissimulare» o «nascondere» e che in italiano potrebbe essere tradotto con «imbiancare» o «insabbiare». La strategia si è poi ampliata e specializzata negli anni, di pari passo alla diffusione e al maggior uso dei grandi media nei processi comunicativi e pubblicitari delle aziende.


Come funziona il greenwashing?

Il meccanismo è chiaro: modificare l’immagine dell’azienda senza incidere realmente sulla sostenibilità ambientale dei processi produttivi adottati. Le azioni di greenwashing si attuano perlopiù attraverso campagne commerciali (pubblicità, packaging del prodotto) ed eventi o sponsorizzazioni, usando immagini concrete, slogan convincenti, messaggi accattivanti e call to action strategiche che possano indurre il consumatore a scegliere e preferire quel marchio piuttosto che un altro.


È possibile per il consumatore svelare l’inganno del greenwashing?

Sicuramente non è semplice. Prima ancora di verificare la reale concretezza e veridicità dei fatti propinati dalle aziende, si innescano, infatti, meccanismi psicologici nella mente del consumatore che rassicurano la sua scelta e velocizzano il processo decisionale: il claim di un impatto ambientale ridotto, infatti, produce nello spettatore una crescente sensibilità ecologica, ossia la percezione di dare un contributo effettivo alla tutela dell’ambiente (riduzione emissioni inquinanti, impatto ambientale di processo, di prodotto ecc); nonché lo stendardo di un forte risparmio energetico “se scegli loro” spinge il consumatore alla garanzia di un risparmio economico sicuro, efficace e di lungo periodo. Niente di più falso.

Questi stratagemmi psicologici costituiscono le fondamenta del green marketing, strategia comunicativa usata quando un’azienda e i suoi clienti assumono nelle proprie attività economiche e sociali un’ottica di lungo periodo, che tenga conto del fatto che le risorse naturali non sono infinite, e che quindi è indispensabile un loro uso responsabile per non ledere i diritti della collettività e delle future generazioni. In questa prospettiva, ciò che contraddistingue una corretta pratica di green marketing e la differenzia dal greenwashing è il carattere pragmatico e veritiero: riuscire ad andare oltre agli obblighi di legge o alle pratiche standard di mercato nella riduzione dell’impatto della propria attività produttiva, coniugando risultati economici e tutela dell’ambiente. Questo avviene modificando non solo i processi produttivi, ma anche il prodotto relativamente a tutto il suo ciclo di vita — dalla fornitura delle materie prime fino allo smaltimento o eventuale riciclo —, ed educando il cliente a un consumo più responsabile, senza dimenticare, infine, una forte considerazione nei confronti dei lavoratori che prendono parte al processo produttivo e delle loro spesso trascurate condizioni di lavoro. La cura e l’interesse per la sostenibilità parte anche da qui.

Di conseguenza, appare di fondamentale importanza per il consumatore saper distinguere campagne green ben riuscite ma fraudolente da quelle che invece prospettano seri cambiamenti. Nel lungo periodo, infatti, le distorsioni psicologiche sopracitate scompaiono e vengono sostituite da un grande scetticismo nei confronti delle green companies, ledendo alla reputazione e ai profitti anche di quelle aziende che effettivamente operano nel rispetto dell’ambiente.


Esempi di greenwashing

Ahinoi, non è affatto difficile scovare esempi di pratiche di greenwashing compiute dai grandi marchi e aziende. Solo nel 2009, l’Antitrust ha sanzionato la San Benedetto per quasi centomila euro per «pratiche commerciali scorrette». La nota società italiana di acqua minerale aveva ai tempi imperniato un’intera campagna pubblicitaria sullo slogan “- plastica + natura” senza, tuttavia, spiegare come le loro nuove eco-policies avrebbero fatto uso di minori quantità di plastica e agevolato l’ambiente. Infatti, come si può evincere dal bollettino dell'Autorità, non risulta che la società «abbia proceduto a effettuare studi per dimostrare e certificare la veridicità delle sue affermazioni», pubblicizzate sulle eco- bottiglie come ad esempio: «prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l'ambiente», seguita dalla dimostrazione del risultato ottenuto, sembra, da «costanti investimenti in ricerca che dal 1983 hanno permesso di ridurre almeno del 30% la quantità di plastica impiegata e quindi di contenere il consumo di energia».

Sul piano internazionale, poi, Consumer International, un’associazione europea di tutela dei consumatori, negli scorsi anni ha individuato i casi più gravi di greenwashing, tra i quali Audi (per aver comparato nella pubblicità il suo diesel pulito a una bicicletta) e Easy Jet (per aver dichiarato che l’impatto di un aereo è inferiore a quello di un’auto ibrida).

Nel 2020 sono state migliaia le aziende che, pur di mostrare cura delle persone e del pianeta, hanno fatto un utilizzo improprio del green marketing e sono state accusate di aver fatto uso di greenwashing: solo all’inizio dell’anno il colosso italiano Eni è stato sanzionato per cinque milioni di euro per aver dichiarato indebitamente in una campagna pubblicitaria di offrire un “diesel verde”, bio e rinnovabile che “riduce le emissioni gassose fino al 40%”. «Non esiste il diesel green prodotto con olio di palma o altre colture alimentari perché causa la deforestazione, – ha dichiarato Veronica Aneris, responsabile Transport & Environment (T&E) in Italia –. Le compagnie petrolifere devono smettere di indurre in errore cittadini e politici con il falso claim del diesel che rispetta l’ambiente e la salute. Dovrebbero invece investire in soluzioni realmente sostenibili, come l’elettricità rinnovabile e i biocarburanti avanzati e il governo deve fare la sua parte nello spingere le multinazionali dei fossili a dare il giusto contributo nella transizione a emissioni zero».

Pochi mesi dopo, un messaggio simile è stato fornito ai consumatori dall’Energy Market Authority di Singapore, in una video campagna che addirittura utilizzava bambini per parlare del natural gas come il più pulito e sostenibile combustibile fossile sul mercato. Infine, anche il colosso IKEA nel 2020 è caduto nella grande rete del greenwashing: a giugno l’azienda è stata accusata dal gruppo ambientalista britannico Earthsight di essere un grande acquirente del legname ucraino esportato illegalmente (senza dimenticare i gruppi ambientalisti che collegavano IKEA anche al disboscamento ucraino). IKEA ha risposto negando di usare consapevolmente il legno raccolto in modo illegale e ha sottolineato che solo l’1% del legname utilizzato dall’azienda in tutto il mondo arriva dall’Ucraina.

Oltre a ciò, messa in accusa è anche l’iniziativa Buy Back del colosso d’arredamento, che promuoveva l’acquisto dell’usato e il rilascio di voucher ai seller- clienti, in modo da contrastare l’acquisto sfrenato e dare una sorta di circolarità all’industria del mobile. Molte associazioni di consumatori hanno però sollevato la questione di greenwashing sull’iniziativa, nonché su alcuni tratti della comunicazione pubblicitaria di IKEA.


Come utilizzare una green communication corretta e responsabile?

I due caratteri fondamentali per realizzare un’ottima comunicazione ambientale sono la correttezza e l’efficacia. Una comunicazione efficace, però, non è per forza corretta e viceversa. E lo dimostrano le campagne greenwashing, di cui spesso il consumatore non si accorge o lo fa troppo tardi. La comunicazione dovrebbe dunque essere: chiara, accurata e specifica, rilevante senza rivendicare falsi meriti, coerente con il contesto e con la funzione d’uso del prodotto, attendibile, comparabile, visibile ovvero sia riconoscibilmente un’informazione ambientale e siano usate le più idonee tecniche grafiche. “Un corretto claim ambientale dovrebbe veicolare informazioni adeguatamente documentate, scientificamente «verificabili» e circoscritte a specifici aspetti verificabili in chiave comparativa rispetto a prodotti omogenei”, spiega l’AGCM.


Quali provvedimenti e garanzie esistono in Italia contro il greenwashing?

La legislazione in merito alla pubblicità ingannevole e alle pratiche commerciali scorrette è piuttosto ampia. Ci limitiamo, qui, a citare l’operato dell’AGCM.

L’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, autorità amministrativa indipendente italiana, spesso informalmente chiamata Antitrust) ha competenza nella valutazione, inibizione e sanzione (fino a 5 milioni di euro) delle eventuali pratiche commerciali scorrette (P.C.S.) ai sensi del codice del consumo (raccolta delle principali disposizioni a tutela dei consumatori). Poi, in materia è fondamentale anche la 58°versione del CAP (codice autodisciplina pubblicitaria) entrata in vigore nel 2014 che si è preoccupata, ad esempio, di riformulare l’art. 12 del CAP («tutela dell’ambiente») precisando che i green claims devono riguardare «dati veritieri, pertinenti, scientificamente verificabili» e «devono consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata si riferiscono i vanti ecologici».

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