Lo scontro Cina-Taiwan: un guaio per l'Occidente e non solo
ANGELO ARNONE
01/12/2021
Le tensioni sorte il mese di ottobre tra la Cina continentale e l’isola di Taiwan hanno fatto il giro del mondo e destato preoccupazione per coloro che pensavano (e pensano ancora) che una guerra tra le due parti storicamente nemiche sia ormai inevitabile e, tutt’al più, solo rinviabile. Ad aggravare la situazione ci pensano poi gli Stati Uniti che, se da un lato si schierano al fianco di Taipei ergendosi paladini della giustizia, dall’altro rischiano di destabilizzare irrimediabilmente una situazione già tanto incandescente. Come la geopolitica ci insegna, però, nessuno interviene in maniera così massiccia all’esterno dei propri confini se non per interessi di varia natura ritenuti indispensabili per il sostentamento del proprio paese. Per comprendere bene il contesto cinese è bene ripercorrere le tracce fondamentali della storia delle due Cine e interpretare il modo in cui il nuovo assetto internazionale di alleanze potrebbe aver ricalibrato i rapporti di potere.
Che le acque del mar Cinese orientale siano agitate è cosa nota fin dall’antichità. Punto di snodo commerciale e geostrategico, questo è stato il luogo dove si sono consumate nel corso del tempo varie battaglie fra gli stati limitrofi, primi fra tutti Cina, Giappone e Corea. La colonizzazione prima e la scoperta di risorse geologiche poi non hanno fatto altro che incrementare gli interessi di dominio delle varie potenze nell’intera zona. Dopo decenni di una pace difficile, retta con difficoltà attraverso accordi di neutralità strategica, oggi le acque di questo mare sembrano intorpidirsi nuovamente soprattutto a ridosso dello stretto di Formosa, una sottile linea di mare che separa l’isola di Taiwan dalla Cina continentale. È proprio qui che si sta consumando una delle instabilità geopolitiche più gravi degli ultimi anni e che rischia seriamente di sconvolgere l’intero scacchiere internazionale.
Le tensioni tra Pechino e Taipei sembrano aver raggiunto da qualche settimana a questa parte i massimi storici, soprattutto da quando il governo cinese ha ordinato alla propria aviazione militare di sorvolare indiscriminatamente i cieli dell’isola taiwanese, suscitando l’attenzione delle più importanti testate giornalistiche e destando preoccupazione nell’opinione pubblica internazionale. È anche vero, però, che la minaccia militare cinese è solo l’ultima di una serie di escalations che nel tempo hanno eroso i legami tra i due stati; un’analisi più accurata del fenomeno richiede invece di dare uno sguardo al passato, analizzando gli eventi che si sono susseguiti nel secolo scorso e le valutazioni diplomatiche che sono poi risultate fatali.
PRECEDENTI STORICI E RADICI DEL PROBLEMA
Tutto cominciò l’indomani del secondo conflitto mondiale. Nel 1949 ebbe fine una lunga guerra civile cominciata nel 1911 e che culminò con l’avvento al potere di Mao Zedong e l’instaurazione della Repubblica Popolare Cinese a carattere socialista. I nazionalisti sconfitti di Chiang Kai-shek furono costretti a rifugiarsi sull’isola di Taiwan per sfuggire alle persecuzioni e lì fondarono la Repubblica di Cina, a sfondo democratico. Era da poco cominciata la guerra fredda e pertanto gli americani decisero di riconoscere come Cina proprio l’isola con capitale Taipei. Solo nel 1971 con la “Risoluzione 2758” adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e la sottoscrizione del “comunicato congiunto sino-americano” (incoraggiato dal presidente americano Nixon) del 1972 si è assistito a un capovolgimento di fronte: la Repubblica Popolare Cinese viene riconosciuta come unico e solo governo cinese, i rapporti sino-americani si rafforzano e Taiwan perde progressivamente il proprio riconoscimento come stato sovrano (ad oggi solo 15 paesi al mondo ne riconoscono la sovranità). Il resto della storia è noto a tutti. Il gigante cinese ha mostrato la sua potenza e fatto valere i suoi diritti, annettendo alla propria sfera di influenza Macao prima e Hong Kong poco dopo. Impossibile è stata invece, almeno fino ad oggi, l’annessione di Taiwan alla madrepatria, anche alla luce del “Taiwan Relations Act” del 1979 siglato tra USA e Taiwan e delle “Sei assicurazioni” promosse dall’amministrazione Reagan nel 1982: Washington avrebbe fornito all’isola un’adeguata copertura militare pur non riconoscendone la sovranità.
UNO SGUARDO AI GIORNI NOSTRI
Le tensioni che si erano riaccese da qualche tempo e hanno raggiunto l’apice tra l’1 e il 4 ottobre scorso, quando 150 aerei militari cinesi hanno sorvolato lo spazio aereo taiwanese, un numero mai così alto. All’offensiva militare ha seguito poi il discorso pubblico del capo di stato Xi Jinping, secondo cui “la questione Taiwan è un affare interno della Cina. Nessuna interferenza esterna è consentita. La storica missione di riunificazione della madrepatria deve essere, e sarà, definitivamente realizzata”. Le notizie hanno fatto in breve tempo il giro del globo, destando forti preoccupazioni tra la popolazione di Taiwan per quello che potrebbe essere una dichiarazione di attacco imminente. In realtà in molti credono che quella di Pechino sia stata una mera esibizione muscolare vecchio stile, mostrando la propria superiorità rispetto a un nemico almeno apparentemente in netto svantaggio. Ma al di là dei titoli sensazionalistici dei giornali mondiali che lasciano intendere come il conflitto sia ormai inevitabile, quali sono le reali probabilità di un’azione militare cinese contro Taiwan, almeno in un futuro prossimo? Come si comporterebbero gli USA e le altre potenze mondiali in caso di attacco e chi, eventualmente, sarebbe favorito per la vittoria finale?
IL RUOLO PRIMARIO DEGLI STATI UNITI E L’AMBIGUITA’ STRATEGICA
Il tema di un’eventuale occupazione di Taiwan da parte di Pechino è motivo di interesse per Washington. Recenti sondaggi hanno mostrato come l’opinione pubblica americana sia favorevole ad un intervento militare statunitense a difesa dell’isola. Diversa è invece la percezione del mondo dell’economia che appare diviso: Taiwan è fondamentale per gli USA in quanto produttore mondiale per eccellenza di semiconduttori, essenziali per le apparecchiature elettroniche usate nelle industrie principali, dai computer alle auto, ed è il decimo mercato per le esportazioni americane. Nello stesso tempo è però inimmaginabile pensare di rinunciare ai fornitori e alle fabbriche cinesi dove è stata geolocalizzata la produzione delle grandi corporations americane come Apple; il mercato cinese poi è fondamentale per l’export USA. In sostanza le lobby economiche sostengono lo status quo: andare avanti così finché sarà possibile. Non a caso le decisioni americane si sono sempre svolte secondo le linee guida della cosiddetta “ambiguità strategica”: da sempre Washington si è impegnata a fornire munizioni e armamenti a Taiwan, senza però esprimere apertamente la volontà di difenderla direttamente. Di recente però anche in questo caso si è assistito a un cambio di rotta: il 21 ottobre Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti interverranno in difesa di Taiwan qualora la Cina dovesse cercare di riconquistare l’isola con la forza, ma ha anche affermato di non volere alcuna guerra fredda con il nemico.
LA STRATEGIA (FALLIMENTARE) DI PECHINO
Di recente il presidente cinese Xi Jinping ha affermato come “l’unificazione in modo pacifico sarebbe più in linea con l’interesse generale della nazione cinese, compresi i compatrioti taiwanesi”, ammorbidendo così i toni, ma non la sostanza. Già da tempo la Cina fa leva sulla propria sovranità per giustificare le sue mire espansionistiche. In passato Pechino ha ripetutamente proposto l’attuazione della formula già usata a Hong Kong di “un paese, due sistemi”, in base alla quale Taiwan avrebbe ottenuto un’autonomia significativa se avesse accettato la riunificazione. L’offerta, tuttavia, è stata ogni volta respinta, viste anche le aspre conseguenze con cui Hong Kong si trova oggi a fare i conti.
L’ASSO NELLA MANICA DI TAIPEI
Sebbene la sproporzione delle forze in campo sia lampante (2 milioni di soldati cinesi contro 170mila taiwanesi, per non dire delle dotazioni aeree, missilistiche e navali), Taiwan gode della “solidarietà” di un gran numero di paesi a essa alleati e capeggiati, ovviamente, dagli Stati Uniti. L’idea che mette tutti in comune accordo è la preoccupante ascesa dell’esercito cinese e la sua sempre più aggressiva presenza nel mar cinese sud-orientale. Oltre alla difesa di Taiwan, c’è in gioco un’enorme quantità di risorse energetiche situate nei fondali marini che fa gola a molti, soprattutto in un periodo storico come questo segnato da sempre più frequenti crisi energetiche. India, Vietnam, Indonesia, Australia, Sud Corea e Giappone sono decisi a schierarsi con gli Stati Uniti in quella che sarebbe una vera e propria morsa volta a contenere l’espansione del gigante cinese. Se anche l’Europa dovesse poi decidere di schierarsi, lo farebbe certamente al fianco degli storici alleati americani, ed ecco che la Cina si troverebbe con il solo supporto di Pakistan, Nepal e Nord Corea.
CONCLUSIONI
La conquista di Taiwan è l’obiettivo principale del leader cinese Xi Jinping, che vorrebbe passare alla storia come l’artefice della riunificazione dell’ex impero di mezzo. Ma la prospettiva di dover affrontare nemici tanto ostili non è di certo allettante. A Washington è diffusa l’impressione che Biden voglia sancire una tregua duratura con la sua controparte cinese, una sorta di pacchetto globale che includa anche garanzie per Taiwan: ecco perché la Casa Bianca sta spingendo per un vertice tra i leader delle due superpotenze. Tutto questo lascia presagire che le strategie diplomatiche e militari messe in atto possano tradursi in un prossimo accordo pacifico tra le parti, ma ad oggi la tensione è ancora alta e l’idea di un eventuale conflitto tra potenze aventi un vasto arsenale atomico fa tremare il mondo intero. Sarà il tempo a dirci se la strategia di accerchiamento da parte dei paesi alleati risulterà decisiva nella risoluzione del problema, o se l’eccessivo contenimento genererà una pentola a pressione pronta a esplodere in qualsiasi momento.
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