L’invasione dell’Ucraina e il ritorno della guerra “vecchio stile” in Europa
DI FABIO LISSI
4 marzo 2022
La nuova crisi ucraina ha fatto riemergere scontri mai sopiti alla periferia orientale dell’Unione. La Russia rivendica un perimetro di sicurezza che ritiene violato in seguito all’allargamento del 2004, mentre l’Ucraina cerca supporto a Occidente, ma avanza richieste che con ogni probabilità rimarranno inesaudite. D’altra parte, l’invasione ha causato una reazione compatta come non si vedeva da tempo sul continente e oltreoceano.
L’Europa orientale e le zone di influenza fra Est e Ovest
Giovedì 24 febbraio ci siamo svegliati tutti con la notizia che non volevamo ascoltare. La concentrazione di truppe russe sulla frontiera ucraina (stimate fino a 200.000 unità) aveva già allarmato l’intelligence americana all’inizio dell’anno. Queste notizie, mai smentite dalla controparte (che ha parlato di un’esercitazione su vasta scala congiunta con la Bielorussia) hanno portato ad accelerare un incontro fra Biden e Putin, durante il quale però non è emerso uno spazio di intesa, essendo le due richieste contrapposte completamente inconciliabili. Alla fine, come da copione, l’esercitazione è servita a portare le truppe in posizione offensiva, e con il casus belli già servito, è iniziata l’invasione. Ma da dove nasce questo scontro? Facciamo il punto della situazione. L’Ucraina è il più grande stato europeo dopo la Russia. Ottenuta la sua indipendenza dall’URSS nel 1991, cede ad essa la totalità del proprio arsenale nucleare (per essere smaltito) e aderisce al trattato di non proliferazione (TNP). In cambio, Russia, USA e Gran Bretagna si impegnano nel Memorandum di Budapest (1994) alla garanzia dei confini ucraini. Nel 2014, all’indomani delle rivolte note come Euromaidan, la Russia viola questo trattato annettendo (in seguito a un referendum la cui validità non è stata riconosciuta da Kiev né dalla comunità internazionale) la Crimea e supportando più o meno direttamente la guerriglia secessionista in corso nella regione del Donbass. Mosca, pur negando un coinvolgimento militare diretto, non ha mai nascosto la sua visione revanscista delle relazioni internazionali, rivendicando mano libera nella propria sfera di influenza. Lo scioglimento del Patto di Varsavia negli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino e poi dell’URSS ha lasciato infatti in sospeso la questione della futura membership NATO/UE delle ex repubbliche socialiste, che secondo Putin non avrebbero mai dovuto aderire al campo occidentale. Benché questa clausola di non adesione non sia esplicitata in nessun trattato, il Cremlino ritiene pericoloso l’allargamento della NATO oltre la linea dell’Oder, motivo per cui nel NATO-Russia Founding ACT del 1997 le due parti acconsentono sul divieto di stazionamento di testate nucleari e “sostanziali truppe combattenti” dell’Alleanza sul territorio dei suoi membri orientali. Dal 2014, in risposta all’annessione della Crimea, la NATO ha dispiegato nella regione baltica 4 battlegroups multinazionali, che per la loro natura rotazionale e la loro ridotta dimensione sfuggono a questa clausola, che la Russia ritiene tuttavia essere stata violata. Da qui (probabilmente), la decisione di aumentare la pressione sull’Ucraina aveva perfettamente senso da un punto di vista strategico, per negoziare da una posizione di forza. Da escludersi invece il timore che l’Ucraina avrebbe fatto domanda di adesione all’Alleanza. Benché infatti questo non sia di certo l’unico motivo, occupare una porzione di territorio di uno Stato rende impossibile per quest’ultimo fare formale richiesta di adesione alla NATO, come era già stato il caso della Georgia e della Moldavia negli anni precedenti. Ma allora perché arrivare a tanto? Per spiegare più nel dettaglio le ragioni di questa escalation, dobbiamo fare un piccolo passo indietro e riprendere in mano alcune teorie delle relazioni internazionali.
Cosa c’entra la geopolitica?
Secondo Halford J. Makinder, geografo e politologo britannico, l’altopiano sarmatico era il “geographical pivot of history”, ovvero la porzione del supercontinente euro-asiatico-africano fondamentale per il suo controllo, perché per via della sua natura non poteva essere conquistata dal mare, ma offriva un vantaggio strategico in ogni direzione. Di conseguenza, prevedeva che uno stato europeo (probabilmente la Germania) avrebbe tentato di estendere la propria egemonia su quest’area, oppure, l’Impero Russo avrebbe conquistato l’Europa occidentale, diventando così troppo potente per essere contrastato dalle potenze marittime (ovvero USA e GB). È passato più di un secolo da quel “who rules Eastern Europe rules the world”, ma senza dubbio siamo di fronte a un’area di grande interesse geopolitico e geoeconomico.
Quando la Russia parla dell’Ucraina come propria “sfera di influenza”, inoltre, richiede delle compensazioni (in questo caso la smilitarizzazione degli stati confinanti), secondo un metodo di negoziazione che è stato il fulcro degli equilibri europei e mondiali per secoli, e che traccia le sue origini fino alla Realpolitik di Bismark.
Bisogna tenere a mente che per quanto la logica di potenza e le compensazioni possano apparire “obsolete” agli occhi degli occidentali, esse sono perfettamente comprensibili non solo dal punto di vista russo, ma da quello di un’intera scuola di relazioni internazionali, ovvero quella realista. Leggendo la situazione secondo i filtri, per esempio, di Waltz, risulta già più chiaro il comportamento russo: in un mondo in cui l’egemone è in declino e le relazioni fra gli stati hanno per definizione natura sempre competitiva e anarchica, il numero di conflitti tenderà per forza ad aumentare. Tuttavia, la reazione compatta del mondo occidentale sembra andare oltre le logiche di balance of powers, e le prime resistenze per via delle ritorsioni economiche sono state rapidamente superate in nome di una precisa scelta di campo. Sono molte le variabili in gioco. Bisogna ricordare, ad esempio, che la Russia ha un’arma molto preziosa nel suo arsenale, ovvero le forniture di gas naturale, che attraversano anche l’Ucraina (37% del totale) per raggiungere l’Europa e che in questi ultimi mesi hanno visto il proprio prezzo salire notevolmente. Ma non solo: la crisi che sta attraversando la stagnante economia russa potrebbe essere un altro motivo per il “quasi-regime” di Putin di spostare i riflettori verso l’esterno e compattare l’opinione pubblica. Può anche essere stato scelto appositamente questo momento per via della “tempesta perfetta” che si è creata sul Vecchio Continente: il disimpegno americano dall’Afghanistan per concentrarsi sul Pacifico (pivot to Asia) potrebbe aver spinto la Russia, con la benedizione cinese (che tasta il terreno per future operazioni su Taiwan), a cercare una spaccatura fra gli USA e gli alleati europei, con alcuni dei quali aveva solidi rapporti, Germania in primis. Inoltre, Putin fa leva su una parte della popolazione ucraina che vorrebbe il ritorno di un governo filorusso, in un paese diviso storicamente fra l’Ovest (la Galizia di tradizione prima polacca, poi austriaca) e l’Est (il Rus di Kiev fu il primo embrione dell’Impero Russo), spaccatura accentuata recentemente dall’avvicendarsi degli ultimi due presidenti. Ad oggi, sembra evidente come tutte queste scommesse siano andate male, lasciando incerto l’esito di una crisi senza via di uscita.
Quali prospettive future?
Il worst – case – scenario, un’invasione e occupazione (costosissima) del Paese, sembrava, secondo gli esperti, completamente da escludere. Ad oggi, purtroppo, i timori dell’intelligence americana si sono tuttavia rivelati fondati, e la Russia ha intrapreso un’invasione su larga scala, che va ben oltre l’intervento nelle due repubbliche popolari autoproclamatesi di Donetsk e Lugansk. A un’intensificazione della guerriglia nel Donbass, responsabile fino a febbraio di 14.000 morti e 1,5 milioni di sfollati, si andranno dunque ad aggiungere ulteriori vittime, sia militari che civili.
Benché la NATO abbia aumentato il proprio personale attivo combattente raddoppiando gli effettivi della High Readiness Force e attivando la Response Force, per un totale di circa 50.000 uomini in assetto da dispiegamento rapido, la maggiore arma rimangono ancora le sanzioni economiche, che si fanno giorno dopo giorno sempre più drastiche, unendo Stati anche tradizionalmente neutrali come la Svizzera. Dopo i primi dissidi sull’esclusione di determinati settori, l’UE, gli USA e il Giappone hanno reagito compatti, la Germania ha bloccato Nord Stream 2, e si valuta l’esclusione della Russia dal sistema SWIFT. La resistenza dell’Ucraina, per quanto la sua durata sia difficile da prevedere, ha provocato una levata di scudi inaspettata per gli stessi europei. L’assistenza economica e militare rimane però assolutamente contrapposta (per ora) a un intervento diretto o a un’ammissione straordinaria del Paese nell’UE, come ha richiesto Zelensky.
Una nota, infine, merita di essere fatta alla luce degli ultimi eventi: il relativismo di valori si ferma nel momento esatto in cui c’è un aggressore e un aggredito. Non esiste giustificazione alcuna per una violazione di tale portata del diritto internazionale.
A voler essere lucidi, purtroppo, il conflitto non avrà breve durata, qualsiasi dovesse essere l’esito. L’occupazione di un territorio ostile così vasto e le sanzioni economiche affameranno la Russia e sul lungo periodo aumenteranno il dissenso, ma nel breve periodo potrebbero causare un effetto di rally around the flag aumentando l’arroccamento attorno a Putin. A pagarne le conseguenze, in ogni caso, saranno il popolo russo e quello ucraino. Dal nostro osservatorio privilegiato, oggi più che mai dobbiamo tenere bene a mente come il benessere assicurato dalle democrazie liberali non sia scontato, e che al netto delle ipotesi sull’obsolescenza della NATO, essa rappresenta ancora la sola e unica ragione per cui un cittadino di Tallin non debba temere per la propria vita come uno di Kiev. Qualsiasi ambiguità a riguardo deve tacere nel momento stesso in cui il diritto di un popolo di vivere in pace viene violato con la forza delle armi, con buona pace di coloro che vedono nella situazione attuale “l’ultimo capitolo dell’espansione imperialista occidentale”, o del neoliberismo (che ormai sta sempre bene su tutto, un po' come il prezzemolo).
Le minacce di Putin in tal senso sono abbastanza eloquenti, “chiunque tenti di interferire subirà conseguenze mai viste nella Storia”: tradotto, una rappresaglia nucleare. Allo stesso tempo però, sa benissimo che il suo bluff non può essere visto: o vince lui, o perdono tutti. Se dovessi sbilanciarmi, direi che nei mesi a venire vi sarà un aumento significativo della presenza militare NATO nell’est Europa, magari con l’inclusione di Austria, Svezia e Finlandia, che potrebbero rompere la loro storica neutralità a seguito delle esplicite minacce russe. Al governo di Kiev è stato offerto esilio a Londra, ma Zelensky pare intenzionato a rimanere in città con la sua famiglia, affrontando le conseguenze che tutti possiamo prevedere. Inoltre, vi è un rischio considerevole di incidenti di confine con altri paesi europei, la cui violazione del territorio farebbe scattare immediatamente l’Articolo 5 del Trattato Atlantico, trascinando in guerra 30 stati che rappresentano più della metà delle spese militari globali.
Infine, è necessario precisare che esistevano già conflitti etnici in Ucraina, in cui non sempre era facile distinguere la verità dalla propaganda. Nel non approfondire questo argomento non si vuole assolutamente sminuire le ingiustizie di cui possa essere stata vittima la popolazione russofona, ma soltanto evitare di mescolare due piani radicalmente diversi. Né si vuole supportare episodi assurdi come tentativi di cancellazione di corsi di letteratura russa per “renderli più inclusivi”. La tanto abusata parola “resilienza” dovrebbe proprio significare questo: mantenere la barra dritta in tempi di crisi, senza farsi tentare da pratiche che hanno ben poco di democratico. È giusto dubitare che esista una parte giusta e una sbagliata della Storia. Esistono però oppressi e oppressori. E se a qualcuno venisse il dubbio su quale fosse quale, lo chieda a chi sia vissuto a Budapest nel ‘56, a Berlino nel ‘61, a Praga nel ‘68, ed oggi a Kiev.