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Uno sguardo sull’Afghanistan: la guerra infinita

DI GIORGIA SCOGNAMIGLIO

4/01/2020

Pedina più scottante e indomabile del Medio Oriente. Vittima di devastazioni umane e
materiali sin dall’invasione sovietica del 1979. È in Afghanistan che è nato il mito della
guerra santa, si sono affermati bin Laden, al-Qā’ida e i talebani. È in Afghanistan che è
cominciata una storia mai finita. L’accordo bilaterale tra gli USA e i talebani avviato da
Donald Trump nel 2019 e l’inizio dei negoziati inter-afghani avevano fatto sperare nella
fine dell’incubo di una guerra durata 18 anni. Eppure, l’epilogo sembra ancora lontano.

L’ascesa dei talebani e la guerra civile

L’Afghanistan sul quale si affacciarono per la prima volta i talebani era un paese frammentato. Dopo la caduta, nel 1992, della Repubblica Democratica dell'Afghanistan, appoggiata dai sovietici, e la nomina di Rabbani come Presidente della Repubblica Islamica, il Paese piombò in una lunga guerra civile.

I combattenti della resistenza islamica - i mujaheddin – che si erano uniti per combattere le forze sovietico-afghane (spalleggiati dagli armamenti e dall'appoggio logistico fornito da Stati Uniti, Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Cina e Regno Unito), alla fine del conflitto, manifestarono le divisioni interne in tutta la loro interezza. In quel contesto, i talebani emersero come una forza armata in grado di riportare ordine e recuperare la tradizione islamica. Imposero con la forza una tregua, mentre gli Stati Uniti, speranzosi che i talebani potessero spingere le varie fazioni a risolvere le loro divergenze, scelsero una politica di non intervento. Nel 1995, dopo una serie di vittorie militari e diplomatiche, i talebani occuparono il governo di Kabul e fondarono l'Emirato Islamico dell'Afghanistan, riconosciuto da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Il presidente Rabbani riuscì a fuggire nelle province settentrionali e continuò ad essere riconosciuto dalle Nazioni Unite come legittimo capo di Stato. Nel frattempo, con lo scopo di combattere il regime, diverse fazioni si raccolsero nel Fronte islamico unito per la salvezza dell'Afghanistan (o Alleanza del Nord) con Rabbani come capo politico e il sostegno di Russia, India e Iran. La guerra civile proseguì fino al 2001 a fasi alterne, senza che né i talebani, né il Fronte riuscissero a vincere.


Il regime talebano

Con la salita al potere, i talebani istituirono la shari'a che si diffuse rapidamente oltreconfine, adottando un atteggiamento repressivo nei confronti degli oppositori. Fu istituita una polizia religiosa con il compito di sorvegliare il rispetto della legge islamica, si tornò a far ricorso all'amputazione delle mani per il reato di furto, alla lapidazione per gli adulteri e alle pene eseguite in piazza. Furono bandite, inoltre, tutte le forme di spettacolo, da quello televisivo a quello musicale, così come il cinema e la danza. Per gli uomini, era illegale portare la barba troppo corta ed era severamente punito tagliare i capelli alla moda "occidentale". Le donne, invece, erano private di tutti i diritti civili e di ogni forma di libertà: private del lavoro ed escluse da forme di istruzione mista, per uscire di casa dovevano essere accompagnate da un uomo e utilizzare il burqa. Sul piano economico, i talebani vietarono la coltivazione di papaveri da oppio, possibile solo in aree da loro controllate, favorendo una crescita dei prezzi che consentì di finanziare l’acquisto di armi e le operazioni militari.


L’enigmatico rapporto con al-Qā’ida e Bin Laden

A partire dal maggio 1996, Osama bin Laden ed altri membri di al-Qā’ida si stabilirono in Afghanistan e instaurarono rapporti di dialogo con il regime, all'interno del quale furono creati diversi campi di addestramento terroristici. Tra il 1999 e il 2000, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò sanzioni economiche all'Afghanistan per incoraggiare i talebani a chiudere i campi e a consegnare Bin Laden alle autorità internazionali. Poi, gli attentati dell'11 settembre 2001 inasprirono i rapporti con gli Stati Uniti: il Presidente George W. Bush lanciò un ultimatum, chiedendo ai talebani la consegna di tutti i leader di al-Qāʿida, la liberazione dei prigionieri e la chiusura dei campi. Ma non essendoci alcuna prova del coinvolgimento di Bin Laden negli attentati, i talebani rifiutarono l’ultimatum. Gli Emirati Arabi Uniti e successivamente l'Arabia Saudita, ritirarono il loro riconoscimento, lasciando il confinante Pakistan come unica nazione restante a riconoscere il regime. Un mese dopo, i talebani si dichiararono pubblicamente disposti a processare Bin Laden in Afghanistan attraverso un tribunale "islamico". Dopo il rifiuto degli USA, si mostrarono disponibili a consegnarlo ad un Paese terzo per un processo, a patto che fossero state fornite prove certe del suo coinvolgimento. Tuttavia, gli USA, col sostegno del Regno Unito e dell’Alleanza del Nord, scelsero la via dei bombardamenti aerei. La velocità del dispiegamento militare e l'immediato accordo raggiunto coi ribelli dell'Alleanza del Nord lasciavano supporre che gli USA avessero pianificato l'invasione ben prima dell'11 settembre. In seguito all’intervento, l’Iran che fino a quel momento si era schierato contro i talebani, iniziò a rifornirli di armamenti.


L’invasione delle truppe statunitensi e la fine (?) del regime talebano

In pochi giorni, gran parte dei campi d'addestramento furono danneggiati gravemente, l'antiaerea talebana distrutta e la popolazione civile pesantemente colpita. A Kabul fu istituito un governo ad interim sotto la guida di un uomo filo-occidentale, Karzai, e organizzata la missione ISAF (Forza Internazionale di Assistenza alla Sicurezza) della NATO con il compito di sorvegliare la capitale e proteggere il governo. Successivamente, il mandato dell’ISAF fu esteso anche al resto dell’Afghanistan: il numero di truppe a guida statunitense nel paese crebbe fino a superare i 10 mila. I soldati talebani, ormai un centinaio, per evitare scontri diretti si rifugiarono nelle grotte o in Pakistan. Nel frattempo, alcuni fuggitivi crearono piccoli campi di addestramento lungo il confine per addestrare nuove reclute e lanciare una nuova jihād contro il governo afghano e la coalizione a guida statunitense. Gli attacchi crebbero gradualmente di frequenza: dozzine di soldati governativi, organizzazioni non governative, lavoratori umanitari e diversi soldati statunitensi morirono in raid, imboscate e attacchi con razzi leggeri. Nel 2005 la NATO ebbe una serie di vittorie tattiche sui talebani restringendone fortemente le aree controllate, ma senza mai sconfiggerli completamente. Nel 2007 l'Afghanistan si classificò 10ª nella classifica degli Stati falliti, per via della crescente violenza talebana, della crescita della produzione di droga e la fragile istituzione dello Stato afghano; inoltre documenti di intelligence mostrano come i rifugi di al-Qāʿida e dei talebani fossero aumentati di quattro volte in quell'anno. Nel 2011, dopo il ritrovamento e l’uccisione di Bin Laden in Pakistan, il regime integralista venne rovesciato e Karzai rimase capo di stato dell'Afghanistan fino al settembre del 2014 quando fu succeduto dall’attuale presidente Ashraf Ghani.


Quali sono i risultati della war on terror statunitense?

Nonostante la caduta del regime talebano, una considerevole quantità di contingenti NATO rimase nel Paese, a causa dell'instabilità politica e dei continui attentati terroristici. Dopo 18 anni di guerra, decine di migliaia di morti e centinaia di miliardi di dollari spesi dalle amministrazioni statunitensi, i talebani non si sono indeboliti. Anzi, grazie anche al supporto del Pakistan e della sua potente agenzia di intelligence, sono tornati a controllare circa la metà del Paese. Anche l’obiettivo primario, quello di allontanare al-Qāʿida, è fallito. Nonostante i leader rimasti siano pochi, ci sono – secondo alcuni esperti - alcuni sottogruppi impegnati accanto ai talebani nella guerra contro il governo e le forze statunitensi, che avrebbero abbandonato solo temporaneamente i loro progetti.


Da terroristi a interlocutori politici: la lunga trattativa per la pace

Nel 2017 la trattativa USA-talebani subisce una forte accelerata per iniziativa di Donald Trump che dichiara pubblicamente l’intenzione di ritirare le truppe da Kabul e dalle province estreme del Paese, in linea con la dottrina isolazionista e di disimpegno internazionale. I negoziati sono stati inaugurati in Qatar a settembre del 2018 dal rappresentante di Washington Khalizad, ma l’esito arriva solo quest’anno: firmati il 29 febbraio, gli accordi di Doha prevedono l’impegno dei talebani a rompere ogni legame con i gruppi jihadisti e impedirne il reinstallarsi sul territorio afghano, in cambio del ritiro delle truppe straniere dal Paese entro 14 mesi.  Si è trattato di un accordo storico, che per la prima volta legittima i talebani politicamente, promuovendoli da terroristi a interlocutori politici.

L’accordo prevedeva anche l’instaurazione – per la prima volta - di un dialogo inter-afghano tra i talebani e il governo “fantoccio” di Kabul per raggiungere una pace duratura, iniziato però, soltanto a settembre di quest’anno. Dopo quasi tre mesi di discussioni, si è giunti ad un accordo preliminare che non ha nulla di concreto, riguardante per lo più le procedure da seguire nel negoziato. I tempi per un accordo politico che metta davvero fine alla guerra (se ci sarà) si prospettano molto lunghi. A causa di una serie di fattori, infatti, si rischia l’ennesimo buco nell’acqua.

  • La violenza proseguita durante le negoziazioni. Le operazioni militari tra le forze governative afghane, statunitensi e i talebani si sono intensificate. A ciò si aggiungono attentati e stragi commesse nei centri urbani delle milizie islamiche locali, come quello recente contro l’Università di Kabul a opera del gruppo terrorista Wilayat Khorasan.

  • Il cambio di presidenza. Biden ha annunciato di voler proseguire sulla strada di Trump per portare a termine il conflitto, ma ha anche fatto intendere di voler trasformare la missione USA in un progetto di antiterrorismo: cosa non gradita ai talebani, la cui condizione primaria per la pace è il ritiro completo delle forze straniere dal Paese.

  • La divergenza di posizioni. Il fronte istituzionale difende la Repubblica islamica nata nel 2001, mentre i talebani reclamano il ritorno all’Emirato islamico d’Afghanistan fondato sulla shari’a. Punti caldi sono anche, da un lato il rilascio “generalizzato” dei prigionieri talebani, indigesto per Ashraf Ghani. Dall’altro il “cessate il fuoco”, prima richiesta di Kabul, che i talebani non sono disposti a concedere prima di arrivare all’accordo.

  • La divergenza di “peso”. Le dichiarazioni ufficiali e i giornali internazionali parlano di “accordo di pace”, ma al tavolo negoziale si parla per lo più di concessioni ai talebani e rinunce da parte del governo afghano, sempre più debole.

Lo strapotere dei talebani sia nei confronti degli USA che del fronte istituzionale fa pensare ad una guerra persa in ogni caso, che vedrà il restaurarsi – probabilmente con maggiore forza - del regime pre-invasione. Considerata l’instabilità interna e le premesse dei negoziati, non ci sarebbe da stupirsi se dovesse scoppiare una nuova guerra civile. Gli Stati Uniti con il loro ritiro strategico rischiano di fare la stessa figuraccia che in Iraq e in Vietnam. Ma a pagarne davvero il prezzo è ancora una volta la società civile, che desidera da più di quarant’anni la pace.

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