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L’India e le donne senza utero

DI ANTONIO CARELLO

17/03/2021

Povertà, ignoranza, proprietari terrieri e chirurghi senza scrupoli spingono le donne indiane a stravolgere il proprio corpo. Le terribili conseguenze dello sfruttamento lavorativo nel gigante asiatico, in parallelo con un’assistente sociale che da sola lotta contro un sistema criminale e misogino

Ogni anno, l’inizio dell’autunno dà il via alla raccolta dello zucchero nell’India occidentale. Oltre un milione e mezzo di persone appartenenti alle caste sociali inferiori si trasferiscono nello stato del Maharashtra, lo sugar belt indiano, dando vita alla migrazione stagionale più ampia al mondo. La maggior parte sono donne che, una volta lì, si trovano sottomesse al volere dei proprietari terrieri. Questi erano inizialmente poco propensi ad assumere donne per un mestiere così faticoso, anche a causa dell’impedimento lavorativo costituito dal ciclo mestruale. Ma a tal proposito, sembrano aver trovato una soluzione.


La vita nei campi da zucchero: non c’è posto per la stanchezza

«Che altro lavoro potremmo fare? Così guadagniamo qualcosa. Dobbiamo pur sfamare i nostri figli». Sheshekala non sa quanti anni ha, ma sa che da vent’anni lavora in quei campi. Lei e tutte le altre tagliatrici di canne da zucchero svolgono turni massacranti, lavorando al ritmo rapido e costante imposto dal mukadam, il supervisore. Schiena e gambe mi fanno male – dice Sheshekala – ma dobbiamo lavorare senza sosta, anche se malate.

Tre minuti per ogni fascio di canne, questa è la regola. La stanchezza non è una buona ragione per fermarsi e assentarsi per malattia comporta multe salatissime.

Il mukadamversa ad ogni coppia di coniugi un totale di 1100 euro per sei mesi di lavoro, già prima del raccolto. Pagare in anticipo, infatti, gli consente di dettare regole stringenti e di tenere in pugno i subalterni. Al primo posto vi è la produttività. Anche il riposo è ridotto all’osso: di notte, le donne cucinano ai figli il pasto per il giorno dopo e i mariti si occupano degli animali. Le condizioni igieniche sono precarie: le lavoratrici dormono per terra e l’assenza di acqua corrente favorisce il proliferare delle infezioni.


La scelta irreversibile delle lavoratrici indiane

Nei campi non c’è posto neanche per il dolore. Per non compromettere il proprio guadagno, Sheshekala ha preso una decisione radicale. Ha deciso di sbarazzarsi dell’organo che le provocava dolore, rallentando il suo lavoro: l’utero.

«Quando è iniziato il mal di pancia, sono andata dal medico. Mi ha consigliato la rimozione dell’utero, per evitare complicanze. Io non ho capito molto bene, ma ho accettato di farmelo togliere per poter lavorare in pace» dice Sheshekala.

Negli ultimi dieci anni, le donne che hanno optato per questa operazione sono oltre 14.000. I mukadam considerano questo fenomeno legittimo poiché le donne scelgono autonomamente la rimozione per poter guadagnare di più. I datori di lavoro prendono le distanze, sostenendo che non possono dire alle lavoratrici come spendere i propri soldi e si schierano dalla parte dei medici, affermando che sono anch’essi dei lavoratori e che con le operazioni si guadagnano da vivere.

Kevitha, un’altra tagliatrice, ha scelto l’isterectomia in seguito ad un’infiammazione all’addome. «I farmaci che mi avevano dato sono serviti per poco tempo, non riuscivo ad alzarmi dal letto dal dolore. I medici mi hanno detto che l’utero era sempre più danneggiato e che se non l’avessi asportato sarei morta». La causa dell’infiammazione era l’eccessivo sforzo e l’assenza di igiene nella vita da tagliatrice. L’isterectomia le è costata 200 euro, pari a due mesi di lavoro nei campi. Kevitha ha soli 30 anni, ma il fatto di non poter più concepire figli non la preoccupa: a 17 anni ha avuto il primo e pochi anni dopo ha avuto gli altri due. Kevitha sembra convinta di questa scelta irreversibile: «Per pagare la clinica abbiamo dovuto vendere delle vacche e chiedere un prestito. Sono tanti soldi per noi, ma lo rifarei».


Informare: il miglior aiuto per le lavoratrici

A pensarla diversamente sull’isterectomia è Manisha Tokle, un’assistente sociale. Insieme al marito scandaglia tutta l’India occidentale con lo scopo di mettere le donne in guardia da questo intervento. «Molti medici mentono riguardo all’operazione, esagerano volutamente – dice Manisha – se non vi è un tumore in stato avanzato o la presenza di coaguli di sangue irremovibili, l’isterectomia è inutile.»

Dukadegaon, abitato da mille persone, è per Menisha il “villaggio senza utero”. Le donne reduci da isterectomia, infatti, sono ben cinquanta. Per sei mesi l’anno, le strade del villaggio sono completamente deserte: tutta la popolazione è a lavorare nei campi da zucchero, restano solo i bambini, gli anziani e le poche persone non in grado di lavorare. La maggior parte di queste sono donne private dell’utero.

Come Savita, che dopo l’operazione ha ricominciato subito a lavorare per ripagare i suoi debiti. La guarigione avrebbe richiesto sei mesi di inattività e, come testimoniano i continui dolori, il suo corpo non si è mai ripreso. «Dovevo ripagare il mukadam, ma mi pento di essermi operata».


Le conseguenze dell’isterectomia e la reticenza di un ginecologo

Per evitare che altre donne si sottopongano all’isterectomia, Manisha bussa alla porta di ogni casa. Spiega che questa operazione è irreversibile e non ha solo conseguenze fisiche, ma anche emotive. Il problema più significativo è l’arrivo della menopausa. Se normalmente essa si manifesta intorno ai 50 anni, nelle donne private dell’utero può sopraggiungere già a 22 anni. La rimozione causa, inoltre, importanti scompensi ormonali che intaccano lo stato emotivo della persona.

Manisha attacca apertamente gli specialisti che inducono le donne ad operarsi solo per un proprio tornaconto economico. Tra questi vi è Vijay, uno dei ginecologi delle donne del “villaggio senza utero”. Egli sostiene di non aver mai consigliato l’isterectomia alle lavoratrici dello zucchero e conclude affermando: «Sono tutte menzogne. Vuole credere a quelle donne o a un medico rispettabile?».

Tuttavia, solo negli ultimi tre anni sono state realizzate quasi 5000 isterectomie e tutte in cliniche private come quella di Vijay, in quanto meno soggette al controllo statale.


L’India tra tabù e sfruttamento femminile

Purtroppo, lo sfruttamento del lavoro e del corpo femminile non riguarda solo le lavoratrici dello zucchero del Maharashtra. Sono state colpite da terribili imposizioni anche le lavoratrici tessili del Tamil Nadu, uno stato nel Sud del Paese. Come ha riportato la BBC, molte donne hanno testimoniato di essere state drogate dal datore di lavoro per far sì che i dolori mestruali non interrompessero il loro ritmo di produzione. Le sarte affermano che non era permesso loro un giorno libero per il dolore, dunque accettavano di ingerire il liquido contenuto in boccette senza etichetta fornitegli dal loro capo. In India, le mestruazioni sono un tabù da sempre. Le donne nel periodo mestruale sono ritenute impure e vengono tuttora escluse dagli eventi sociali e religiosi. Questo nodo culturale si traduce spesso in scelte irreversibili imposte alle donne delle caste inferiori, rese ricattabili dalla povertà e influenzabili dalla loro inconsapevolezza.


Le prime vittorie di una dura lotta

L’attivismo di Manisha Tokle ha come scopo proprio quello di informare le lavoratrici e sensibilizzare la società civile. Grazie a lei, il fenomeno delle “donne senza utero” è venuto a galla. In seguito alla grande diffusione di notizie, il governo del Maharashtra ha espresso sdegno nei confronti dei chirurghi che effettuano l’isterectomia senza valido motivo e li ha obbligati a chiedere l’autorizzazione statale prima di ogni operazione.

Successivamente a questo provvedimento, il fenomeno è sceso da 120 a 80 casi al mese. Il governo dello stato del Bihar ha concesso alle donne due giorni di riposo in più al mese ed è stata presentata una proposta di legge volta ad estendere la disposizione a tutte le donne indiane.

Nonostante le buone notizie, Manisha sa di lottare contro un’industria potente e gigantesca: «Molti partiti politici sono azionisti delle aziende dello zucchero e io li condanno apertamente. Chiedo più diritti per le donne!».

Manisha è consapevole di quanto lunga e impervia sia la strada per l’emancipazione delle lavoratrici, ma questo non le impedirà di continuare a lottare.

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