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L’Italia e la Belt and Road Initiative (一带一路): un caso di coscienza

DI IRENE CORTESI

10/12/2023

Da diversi mesi il governo italiano era alle prese con un dilemma cruciale: la decisione di rinnovare o meno il Memorandum sulla Belt and Road Initiative (BRI), il progetto infrastrutturale, commerciale e politico avviato dalla Cina un decennio fa. Già a partire dal mese di maggio 2023, Giorgia Meloni aveva annunciato la mancanza di intenzione da parte del governo italiano di proseguire con l'accordo, volontà che è stata confermata con l'uscita ufficiale dell’Italia dalla Via della Seta. Esamineremo quindi le motivazioni che hanno spinto il governo italiano ad aderire all'iniziativa di Xi Jinping e i possibili elementi di rottura.

L’ingresso nella BRI tra opportunità…

L’adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative (BRI) era avvenuta nel marzo 2019, con la firma di un Memorandum d’Intesa con la Repubblica Popolare cinese da parte del governo di Giuseppe Conte. L’accordo, della durata di cinque anni, rendeva l’Italia (il primo e unico paese del G7) un membro ufficiale della BRI a guida cinese. L’adesione formale dell’Italia era stata subito oggetto di dibattito.

L’ambizioso progetto, ispirato all’antica Via della Seta(丝绸之路) era stato proposto da Xi Jinping nel 2013 al fine di “Costruire un mondo aperto, inclusivo e interconnesso per lo sviluppo comune” (建设开放包容、互联互通、共同发展的世界). L’iniziativa prevedeva la costruzione di una nuova piattaforma per la cooperazione economica internazionale attraverso il miglioramento delle politiche, delle infrastrutture, del commercio e della connettività finanziaria, al fine di rilanciare l’economia globale.  A testimonianza della volontà cinese di promuovere l'integrazione cinese nell'economia globale, nel 2014 è stata istituita la Silk Road Fund e nel 2016 è stata fondata l'Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB). Entrambe le istituzioni svolgono un ruolo fondamentale nel contesto del progetto BRI e hanno il compito di finanziare l'ambizioso piano politico internazionale. Un esempio di ciò è rappresentato dal 5% delle azioni di Autostrade detenute dal Silk Road Fund e alle sue acquisizioni, tra cui spicca quella di Pirelli.

A detta di Pechino quindi, l’obbiettivo del progetto è la creazione di una comunità dal futuro condiviso, dove lo sviluppo altrui e l’interdipendenza economica non sono considerate delle minacce ma delle opportunità e Xi Jinping è pronto ad esserne il timoniere, aiutando gli altri paesi mosso dall’idea che:” Quando regali delle

rose ad altri, la loro fragranza rimane sulle tue mani”. (赠人玫瑰则手有余香,成就别人也是帮助自己).


…e rischi…

Tuttavia, la natura del progetto rimane controversa. Resta da chiarire, infatti, se questa nuovo quadro di cooperazione internazionale rappresenti effettivamente “il perseguimento congiunto dell’umanità verso lo sviluppo per tutti” (汇集着人类共同发展的最大公约数) e non celi in realtà un grande esercizio di soft power cinese, volto ad aumentare l’influenza geopolitica e strategica cinese in Europa e nel mondo.

Inoltre, un’altra preoccupazione che hanno destato gli accordi targati BRI è legata alla cosiddetta trappola del debito.
Le iniziative della Nuova Via della Seta, infatti, vengono principalmente finanziate tramite concessione di prestiti ai paesi destinatari, generando un rischio significativo che questi paesi non siano poi in grado di ripagare il debito.


Pressioni esterne

Le intenzioni della Cina rimangono quindi dibattute, così come l’adesione dell’Italia alla BRI che era stata molto contestata in primis da Washington, che ha sempre criticato l’iniziativa cinese definendola un esempio di “diplomazia della trappola del debito”, ma anche da vari paesi europei come la Germania e la Francia.

Per questi motivi, il governo italiano dell’epoca, che vedeva nell’adesione all’iniziativa cinese una possibile via di uscita dalla stagnazione economica che affligge l’Italia da anni, era stato accusato di un’eccessiva ingenuità che l’avrebbe portato a rischiare di diventare una sorta di cavallo di Troia all'interno dell'intero Occidente.

Per quanto riguarda il caso italiano, l’adesione alla BRI non ha portato a “un mare di pericoli” (questo anche grazie al Golden Power, strumento introdotto nel 2014 per garantire la tutela degli interessi nazionali in settori strategici) ma nemmeno l’abbondanza di opportunità economiche sperate.

Tra i motivi che hanno spinto Giorgia Meloni a lasciare questa iniziativa vi è infatti in primo luogo una motivazione economica data dal fatto che non sono stati raggiunti i benefici attesi: il Memorandum, infatti, ha portato a vantaggi commerciali limitati per le imprese italiane rispetto alla concorrenza europea. In secondo luogo, vi è una motivazione politica che risiede nella pressione di Washington. Quest’ultimo, preoccupato per lo sviluppo economico e militare della Cina e della sua “longa manus” in Occidente, ha infatti giocato un ruolo fondamentale nel dissuadere il governo italiano a rinnovare l’accordo con il Dragone.


E ora che succede?

Nonostante il recente cambio di rotta, l’Italia ha sottolineato la sua volontà di continuare a coltivare i suoi rapporti con Pechino, rilanciando il partenariato strategico tra i due Paesi in vigore dal 2004, volto allo sviluppo e al rafforzamento di una collaborazione bilaterale.

Per quanto riguarda le numerose aziende italiane presenti in Cina, vi è il timore riguardo a possibili ripercussioni e ritorsioni. L'Italia potrebbe infatti perdere il privilegio di una "corsia preferenziale" nelle relazioni commerciali con Pechino, ma al momento non sembra avere alcuna intenzione di innescare un conflitto diplomatico.

Se l’esperienza della BRI non ha portato ai successi auspicati, ha quantomeno permesso all’Italia di approfondire la comprensione del contesto cinese e di sviluppare una "China policy" più coerente, basata su valutazioni più precise e rigorose per identificare i reali rischi e le effettive opportunità derivanti dalla collaborazione con la Cina.

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