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L'intreccio tra attivismo socio-politico e l'autorità statale: nodi, equilibrio, l'anima del rapporto

DI BEATRICE SCAVINO

12/12/2020

Viviamo in un momento storico che ci ha regalato una rete di comunicazione globale tale da sottoporci informazioni su informazioni, 24/24, su (quasi) tutti gli avvenimenti attorno a noi e non solo: ma quando questi avvenimenti si concretizzano sotto il nome di 'attivismo', quanto in realtà sappiamo del rapporto tra quest'ultimo e l'autorità (o il potere) con cui si sta in(s)contrando?

È il 20 agosto di quest'anno, e il sito BBC NEWS sta diffondendo la notizia dell'omicidio di Riham Yaqoob - medico iracheno attivista per i diritti umani - ad opera di uomini armati sconosciuti. Non l'unico, ma anzi, il terzo della settimana: è una chiara dimostrazione di repressione contro le proteste antigovernative che si susseguono nel Paese già da tempo.  Schierarsi contro la corruzione e la disoccupazione, in Iraq, sembra essere diventato un progetto suicida più che un atto di libertà: dietro questi attacchi ci sono le milizie statali? Le forze di sicurezza?. Mentre il Primo Ministro Kadhimi assicura giustizia, la rabbia generale cresce, e con lei la tensione.

Pochi mesi più tardi, il 19 novembre, appare sulla piattaforma Instagram l’appello di Amnesty Italia. Firmare una petizione, o meglio, cinque petizioni, per tentare di garantire una vita migliore - o addirittura salvarla - a sei diversi attivisti: Gustavo Gatica, rimasto accecato dalla polizia anti-rivolta mentre protestava per un Cile più equo; Nassima al-Sada, imprigionata per essersi battuta a favore del diritto delle donne di guidare in Arabia Saudita; Melike Balkan e Ozgur Gur, studenti turchi sotto processo per il solo fatto di aver preso parte ad una manifestazione pacifica in favore dei diritti LGBTI; Jani Silva, attivista colombiana per l’ambiente, in particolar modo per la sua Amazzonia; infine, Khaled Drareni, giornalista, condannato a tre anni di carcere in Algeria per aver diffuso informazioni e notizie riguardo al movimento di protesta civile “Hirak”. Persone provenienti da Paesi differenti. Con passati differenti. Con motivazioni differenti. Cosa può accumunarle allora?

Una possibile risposta: l’esser state persone libere, in Paesi che la libertà l’hanno solo per iscritto, o talvolta nemmeno quello. Tra le mani di governi che non accettano il loro operato, tantomeno le loro figure.

Perchè però sembra di avere la sensazione che, nonostante ci colpiscano, queste storie siano “lontane”, provenienti da mondi disastrati e remoti? Ho avuto il piacere di porre qualche domanda ad Aleksandra K., ragazza polacca residente in Italia al momento, riguardo ad un’altra soppressione del (per noi) fondamentale diritto di manifestazione. Le proteste contro la nuova legge anti-aborto, in Polonia per l’appunto; Paese europeo, molto più “fisicamente” vicino a noi.  Come emerge dalla nostra conversazione, però, realizziamo che non è l’essere o meno europei, o appartenere ad una determinata zona del mondo che rende automaticamente “civili e progrediti”. E quindi, cos’è?

Aleksandra rivela che la televisione statale TVP è fantoccia del governo e i mass media all’opposizione sono messi a tacere: fin dall’inizio il leader di partito Kaczynski ha mostrato le proteste come attacco alla tradizione polacca, alla Chiesa e alla famiglia. Le repressioni sono botte ai manifestanti, arresti, incarcerazioni. L’ elettricità è nell’aria.

Probabilmente, questa è la risposta al quesito che fin dall’inizio ci siamo posti. Non è un luogo geografico, nè un’etnia che fa del rapporto attivismo-autorità il suo fulcro. È inanzitutto l’ordinamento statale, ma per la maggior parte è ciò che quest’attivismo rappresenta per l’autorità. In Paesi “fragili”, squassati da lotte intestine, passati difficili, condizioni precarie, poca fiducia per il potere vigente e altro, ogni minaccia - o considerata tale - sarà temuta, soppressa. Un Paese che cerca stabilità e pace è un Paese che ha paura del cambiamento, che spera nell’ordine e nell’equilibrio tanto quanto un Paese che invece fa del cambiamento la propria speranza. Negli Stati effettivamente democratici si ha la possibilità di esprimere la propria opinione ed essere attivisti per ciò in cui si crede, senza temere per la vita; non semplicemente perché una Costituzione lo prescrive, ma perché ci sono persone che quei principi li fanno loro. In questo caso, le manifestazioni (pacifiche e rispettose) diventano un alleato dell’autorità statale: si esprime un disappunto con lo scopo di ricevere risposte e/o miglioramenti da parte di essa, ma anche così non fosse, il messaggio sarà comunque stato passato, avrà avuto una possibilità di discussione e confronto e avrà segnalato a chi di competenza (il potere) cosa si potrebbe rimediare o altro. Finchè invece l’autorità avrà paura di quel confronto, lo disprezzerà o eviterà, non si potrà avere una “sana” relazione tra attivismo e potere, e continueranno ad esserci in giro per il mondo nuov* Riham, di cui non potremo far altro che leggere le storie.

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