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Cyber geopolitica e altri scenari
futuri, ma neanche tanto

DI SILVIA PANINI

1/03/2020

Ai quattro classici teatri della politica estera e della sicurezza statale – terra, aria, mare e spazio – si è aggiunto oggi un nuovo, prepotente attore: lo spazio informatico, o cyberspazio.

È davvero così cruciale come sembra?

Nel suo libro World Order, Henry Kissinger commenta come la nuova dimensione “cyber” sfidi “tutte le precedenti esperienze storiche” nel campo economico e militare. Il consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di stato degli Stati Uniti sotto Nixon e Ford è noto per le sue previsioni geopolitiche crude, eppure azzeccate. Oggi possiamo infatti contare il cyberspazio come la “quinta dimensione” della geopolitica, una variabile fondamentale non solo nelle nostre vite, costantemente collegate ad internet: nell'ultimo rapporto Digital 2020 è emerso che i 50 milioni di utenti Internet italiani passano in media sei ore online ogni giorno e ognuno possiede otto account social.

Se il suo ruolo è chiaro nel quotidiano, in quale modo il cyber influisce sulla politica estera di uno stato?

Il cyber come sfida

Seguendo il ragionamento di Kissinger, il cyber è una sfida per gli stessi stati nazionali. La globalizzazione, lo sappiamo, ha ridimensionato la precedente superiorità dello stato-nazione. Questo continua certamente ad essere l’attore primo delle relazioni internazionali, ma la dimensione geografica ha peso sempre più inferiore: i chilometri non contano se l’attacco parte e arriva attraverso i computer. Per gli stati, il mondo digitale sta acquisendo un peso preponderante, arrivando ad equivalere quello delle economia, e ne influenza qualsiasi decisione, da quelle militari agli investimenti alla politica estera. Un esempio è l’agenda Made in China 2025 pubblicata da Pechino nel 2015, il cui scopo è appunto quello di potenziare il settore dell’high-tech nei campi, tra gli altri, dell’informatica e della robotica. O anche la guerra civile libica: come sottolinea il giornale sudafricano online Daily Maverick, gli attacchi ad opera di hacker sono frequenti nel conflitto fra i due governi libici rivali. Nell’agosto 2019, l’account Twitter del Gna di al-Serraj pubblicò un messaggio, scoperto poi essere falso, in cui si dichiarava che il governo si era fatto da parte e aveva affidato la sicurezza all’Esercito di Liberazione Nazionale del generale Haftar. Quest’opera di hackeraggio ha causato solo un po’ di confusione nell’opinione pubblica libica, ma come sottolinea il quotidiano, “tenendo conto di quanto sono diventati importanti i social network nella comunicazione dei governi appare sempre più concreto il rischio che un incidente simile possa causare gravi danni”. Se a questo aggiungiamo il ruolo crescente dei droni e di armi non convenzionali per lo scontro, ecco che davanti a noi si profila già chiaramente quella “sfida” di cui parlava Kissinger.

Anche la diplomazia è diversa da quella del mondo pre-tecnologico, basti pensare a Wikileaks e al caso Snowden, e all’eco che hanno creato nell’opinione pubblica: l’idea di un Grande Fratello capace di spiare tutti noi evoca incubi orwelliani, eppure è ciò a cui gli stati puntano per garantirsi cyber-sicurezza. Anche questo rappresenta una sfida del mondo odierno: privacy o sicurezza? Controllo o libertà? La questione è stata riproposta dal Washington Post a fine febbraio in salsa europea: in un'operazione congiunta con l'allora Germania Occidentale, la Cia ha spiato per mezzo secolo le comunicazioni criptate di almeno 120 Paesi tra governi rivali e alleati, compreso il Vaticano, attraverso la società svizzera Crypto Ag, segretamente controllata dall'intelligence statunitense e tedesca.

Insomma, se per secoli i paesi si sono fatti la guerra militarmente, sul campo diplomatico e per mezzo dell’economia, ecco che invece oggi l’ordine mondiale è da disegnare anche attraverso il cyberspazio. Secondo Adam Segal, autore del famoso The Hacked World Order, “a partire dal 2012 […] il mondo si è spaccato sulla governance dell’Internet. Il cyberspazio è diventato il campo di battaglia”. E su questo nuovo campo, i leader mondiali si trovano spiazzati: prima disponevano di un metro di misura certo per prevedere la vittoria di uno scontro – la forza economica e militare –, ora ne sono invece improvvisamente privi.

Non tutto quel che luccica è cyber

Certo non si può affermare che l’intero peso geopolitico si trovi sull’asse cybernetico. Come ricorda Manlio Graziano, “la pagina numero uno di qualsiasi manuale militare resta sempre la difesa del territorio”. La dimensione geografica resta infatti importante: non è da dimenticare che, ad esempio, i cavi attraverso cui corre Internet sono cavi fisici, che occupano uno spazio reale e attraversano veri confini: è qui che si trova il 97% delle comunicazioni. E fu in seguito al caso Snowden che il Brasile decise di realizzare un suo proprio piano di cavi che non comprendesse alcuna collaborazione, nella progettazione come nella posizione geografica, degli USA accusati di aver spiato cittadini di tutto il mondo attraverso la loro National Security Agency. Quest’ultimo esempio però ci mostra al contempo l’altra faccia della medaglia: che un comportamento nel mondo cyber può avere notevoli conseguenze in quello reale.

“Dinamica, rapida e imprevedibile”

Ma esattamente, come riconoscere un attacco in questo nuovo spazio, di fatto immateriale?

Ecco che ci viene in aiuto la definizione di cyber-guerra offerta da Carlo Jean e dall’ex ministro Paolo Savona nel loro libro Intelligence Economica (Rubettino, 2011): “La cyberwar include tutte le forme di attacco e di difesa nel cyberspazio. È un’estensione della guerra elettronica nei suoi aspetti sia offensivi che difensivi (contromisure, intercettazioni, ecc.) che difensivi (contro-contromisure, crittografia, firebreak, ossia sbarramenti per impedire l’accesso alle reti e alle banche dati) e va strettamente coordinata con essa. Può costituire una forma sia autonoma sia ausiliaria di lotta. Ha finalità sia politico-strategiche che economiche. In entrambi i settori, le reti informatiche agiscono come moltiplicatori – e anche come generatori –di potenza economica e militare”. Prosegue: “La cyberwar è estremamente dinamica, rapida e imprevedibile. Annulla il valore della distanza, del tempo e delle frontiere. Rende possibili sorprese strategiche, molto di più quanto esse siano possibili con gli strumenti hard. Può consentire a piccoli gruppi o ad individui singoli collegati in Rete di esprimere una grande potenza e di provocare danni disastrosi”.

In breve: la cyberwar è un’evoluzione della guerra convenzionale. Nessuno stato oggi può pensare di condurre un attacco o di difendersi “senza fare ricorso a strumenti dell’attività informatica, come la sorveglianza e il sabotaggio” scrive Roberto Vivaldelli di Inside Over.

È immediatamente chiaro che un attacco cybernetico può quindi assumere differenti forme, le più disparate: dalle intromissioni hacker durante le campagne elettorali ai sabotaggi di interi siti internet appartenenti ad aziende, dai pirati digitali che mettono a rischio diretto i cittadini fino ai malware impiantati in programmi statali, la lista è lunga; e quel che è peggio, si modifica continuamente. E può assumere anche contorni “inusuali”: è di fine febbraio la notizia di un attacco hacker da parte di Hamas verso gli smartphone dei militari israeliani, adescati con foto di ragazze “attraenti” che si offrivano di fare due chiacchiere in chat sui più noti social media, facendo in questo modo cliccare un link che conteneva software spia. Il portavoce dell’Idf ha ammesso che “il livello di ingegneria sociale” di queste operazioni si è fatto decisamente più sofisticato “rispetto ai precedenti tentativi”: gli hacker “stanno imparando e migliorando il loro gioco”.

Due caratteristiche li distinguono dalla guerra tradizionale: sono attacchi difficili da prevedere e possono restare anonimi. Se infatti è possibile rintracciare la base di partenza di un missile, diventa molto più complicato ricostruire il tragitto di un virus internet.

Non bisogna però pensare che la guerra tradizionale sia stata ufficialmente soppiantata, e qui ci ricolleghiamo a quanto detto sopra: se è vero che qualsiasi scontro ora prevede strumenti anche tecnologici, resta pur sempre presente la componente tradizionale, nel campo delle armi e della strategia. Il primo caso noto di risposta “classica” ad un’offensiva tecnologica è stato registrato nel maggio 2019, da parte israeliana come risposta ad un attacco cybernetico di Hamas: i 700 missili lanciati da Tel Aviv avevano lo scopo di distruggere fisicamente il quartier generale informatico di Hamas. Perché occorre ricordarlo: Internet non è impalpabile, è molto più concreto di quanto si pensi. Cavi, antenne e data center occupano un preciso spazio geografico e, soprattutto, geopolitico. Il diritto internazionale sta ancora dibattendo circa la legittimità della risposta israeliana, ma quello che è certo è che gli scontri militari saranno sempre più così “ibridi”.

Cambiare di prospettiva

In un mondo esponenzialmente globalizzato, la dimensione cyber permette di annullare le tradizionali distanze geografiche, temporali e materiali. È veloce, nuova e soprattutto potenzialmente accessibile a chiunque: nel 2017, il 94% dell’Europa del nord aveva accesso a internet. I più attenti puntualizzeranno che non tutti sono hacker, e che se la quasi totalità dei finlandesi e svedesi poteva accedere a Whatsapp, nello stesso anno solo il 12% dell’Africa poteva scorrere la home di Facebook o postare su Instagram. Vero, ma resta il fatto che le connessioni in rete si sono centuplicate negli ultimi anni.

In questo modo esponenzialmente connesso, quindi, occorre mantenere il passo per restare vivi. È la dura legge della giungla, che anche se non piace, è innegabile. Le istituzioni classiche e il diritto internazionale dovranno adattare i loro schemi tradizionali ed incorporare quello che è a tutti gli effetti, Kissinger docet, la sfida del ventunesimo secolo. Alcuni stati propongono di regolamentare la guerra tecnologica alla stregua di quella tradizionale, altri di bandirla come si fece per le armi chimiche: resterebbe comunque il tallone d’Achille degli stati nazionali, perché questi sono, volenti o nolenti, sempre più connessi, proprio come noi.

Ci troviamo di fronte ad un grande ordine mondiale che è stato hacked: violato. Vedremo se e come questo verrà ripristinato, ripensato o cancellato.

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