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Brexit: deal o no-deal?

DI ELEONORA RINALDI

13/12/2020

Un errore di proporzioni storiche per alcuni, l'occasione per riprendere la piena sovranità della nazione britannica per altri. La Brexit dopo 4 anni di intense negoziazioni, due primi ministri inglesi e due commissioni europee, ha raggiunto l'ultimo capitolo della sua imprevedibile storia, con un finale ancora tutto da scrivere.

Un errore dalle di proporzioni storiche per alcuni, l'occasione per riprendere la piena sovranità della nazione britannica per altri. La Brexit dopo 4 anni di intense negoziazioni, due primi ministri inglesi e due commissioni europee, ha raggiunto l'ultimo capitolo della sua imprevedibile storia, con un finale ancora tutto da scrivere.

Dal 31 gennaio 2020, il Regno Unito, è ufficialmente uscito dall'Unione Europea, dando inizio al cosiddetto periodo di transizione, undici mesi per trovare un accordo commerciale con i 27 Stati europei, in mancanza del quale sarà l’Organizzazione mondiale del Commercio a stabilire le nuove disposizioni sulle relazioni tra Londra e Bruxelles. L’opzione di un “No-deal”, comporterebbe l’introduzione di dazi, tariffe e controlli doganali secondo gli standard dell’OMC, che ostacolerebbero notevolmente le importazioni ed esportazioni, portando fuori mercato numerosi prodotti britannici, con pesanti ripercussioni per entrambi i blocchi, le cui economie sono già ampiamente frustrate dall’attuale pandemia.

A meno di un mese dalla scadenza, tuttavia, l’accordo tarda ad arrivare, incagliato così come è su tre questioni fondamentali per entrambi i blocchi: la pesca, l’equità concorrenziale e la giurisdizione per la risoluzione di future controversie. Si tratta di questioni molto delicate, per entrambi le Parti, che non possono essere esclusivamente analizzate in termini strettamente economici, poiché ai rispettivi interessi in quell’area, si aggiungono spesso antagonismi di carattere simbolico.

La pesca, nonostante rappresenti solo lo 0,1% del Pil britannico, riveste un’importanza strategica per Londra, poiché riprendere il controllo totale sulle acque britanniche e poter decidere in maniera autonoma sul numero di barche straniere da ammettere annualmente, rappresenterebbe il pieno riconoscimento di nome e di fatto della sovranità inglese da parte dell’UE. D’altro canto, la pesca è particolarmente rilevante per alcuni Paesi europei come la Francia, il Belgio, l’Olanda e la Spagna, le cui aziende ittiche per anni hanno condotto agevolmente le proprie attività, nel rispetto di un comune sistema di ripartizione di quote del pescato. Per il Regno Unito, scendere a patti con gli Stati europei in questo ambito, simboleggerebbe una sconfitta patriottica, una “BINO” (Brexit in name only), che potrebbe generare una preoccupante insoddisfazione tra la popolazione britannica, in particolare quella scozzese, (il 60% del pesce britannico passa infatti per la Scozia). Qualora Londra non riuscisse ad imporsi su Bruxelles, si rischierebbe di favorire le ben note pulsioni secessioniste scozzesi, che, secondo i sondaggi, hanno al momento raggiunto i livelli massimi di sostegno.

La stessa valenza simbolica è rivestita dalla questione del cosiddetto “Level Playing Field”, ossia l’allineamento richiesto dagli Stati europei al Regno Unito, su norme relative a tutela ambientale, diritti dei lavoratori, aiuti di Stato e servizi allo scopo di evitare una futura concorrenza sleale. Condizioni queste che Londra, al momento attuale, non è disposta ad accettare, poiché finirebbe per essere assoggettata alle norme dell’UE senza esserne più membro.

Ancor più spinosa, è la decisione sugli organi di giurisdizione competente post-Brexit. Secondo l’Unione Europea, si dovrebbe infatti continuare a disporre delle proprie Corti, ovvero la Corte di giustizia europea e la Corte europea dei Diritti dell’uomo, per la risoluzione di eventuali controversie. La proposta sembra essere ragionevole se si considera il numero di aziende e cittadini europei presenti sul suolo britannico, ed il fatto che numerose norme europee siano ormai da anni parte integrante dell’ordinamento inglese. Tuttavia, la propaganda di Johnson e dei sostenitori della Brexit, in questi anni, ha sempre difeso a spada tratta l’importanza per il Regno Unito di riappropriarsi della propria capacità ed autonomia legislativa, “arrendersi” alle corti europee sarebbe una chiara contraddizione di questa narrativa.

Ad incrinare ulteriormente le difficili negoziazioni, è stata la “Internal Market Bill”, ovvero, la recente proposta di legge di Boris Johnson sulla definizione dei poteri del governo centrale britannico nei territori di Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Difatti, le clausole della proposta di legge in riferimento all’Irlanda del Nord, violano alcune disposizioni precedentemente concordate con l’UE nel Withdrawal Agreement. Secondo quest’ultimo, l’Irlanda del Nord, al contrario di Scozia, Galles ed Inghilterra, continuerà a sottostare ai regolamenti europei in materia di import-export, al fine di scongiurare la creazione di un confine fisico con la Repubblica d’Irlanda, scelta che metterebbe in serio pericolo i 22 anni di rapporti pacifici, garantiti dagli Accordi del Venerdì Santo, tra i due blocchi storicamente nemici. Di conseguenza, qualora UK e EU non raggiungessero un accordo commerciale, la Gran Bretagna sarebbe costretta a sottoporre ai controlli doganali qualsiasi prodotto in entrata nell’Irlanda del Nord, poiché starebbe di fatto entrando nel mercato unico europeo. A questo proposito, l’Internal Market Bill prevede l’istituzione di un ente indipendente per monitorare il funzionamento dell’intero mercato interno inglese, violando il diritto internazionale sui trattati.

Bruxelles ha risposto tempestivamente, annunciando di voler agire per vie legali se Londra non avesse immediatamente ritirato la proposta. Così, il 10 ottobre, la Commissione Europea ha inviato una lettera di messa in mora al Regno Unito, segnando l'inizio di una procedura di infrazione che si è potuta arrestare soltanto l’8 dicembre 2020, quando il ministro britannico Michael Gove ha annunciato di aver raggiunto un accordo di principio con il vicepresidente della Commissione europea Maros Sefcovic, secondo il quale il governo inglese revocherà dalla proposta di legge le clausole oggetto di illecito, 44, 45, e 47.

Si tratta di un primo allentamento delle tensioni tra UK e UE, che fa ben sperare di poter progredire nelle negoziazioni sull’accordo commerciale. Tuttavia, il rischio di un “No-deal” è ancora alto, dal momento che la linea condivisa dai 27 Stati membri sembra quella di rifiutare, l’ipotesi di un accordo “a tutti i costi” con il Regno Unito e lo stesso Johnson ha confermato nelle settimane precedenti, l’effettiva possibilità di un’uscita senza accordo commerciale, “in stile Australia”. Gli esperti stimano una probabilità del 50% su entrambi gli scenari, non resta quindi che attendere ancora qualche giorno, per conoscere il finale dell’articolata, mutevole, avvincente trama della Brexit.

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