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The Asian Way: la diplomazia a suon di panda e K-Pop

DI MIRIAM SEMERARO

24/12/2023

E se la diplomazia non fosse fatta solo di trattati e ambasciate? La diplomazia non-tradizionale mostra che le possibilità di strumentalizzare la cultura sono infinite e che anche l'Asia Orientale è capace di ricorrere abilmente al soft power.

Grazie alla sostenuta crescita economica e all’aumento della propria influenza sul piano internazionale, anche l’Asia Orientale ha gradualmente contribuito al fenomeno della ‘glocalizzazione’. Quest’ultima fa riferimento alla diffusione a livello globale di aspetti della propria cultura, a loro volta riconvertiti in chiave locale da chi vi entra in contatto, senza però annullarli del tutto.

In Occidente, è possibile trovare frammenti di Asia in un’infinità di contesti: da quelli quotidiani fino a quelli più formali, la cultura pervade ogni sfera della società, rappresentando un interessante catalizzatore persino in politica internazionale. Cummings introduce il concetto di ‘Cultural diplomacy’ definendola come “lo scambio di idee, informazioni, valori, sistemi, tradizioni, credenze e altri aspetti della cultura, con l’intenzione di favorire la comprensione reciproca”. Così il soft power alla “Asian way” incorpora quelli che nel mondo sono i simboli riconoscibili della cultura asiatica e ne fa strumenti di diplomazia non-tradizionale in modo e misura differente, puntando sull’attrazione e la persuasione. Di seguito, saranno considerati brevemente due esempi di diplomazia non-tradizionale che hanno come protagonisti proprio dei Paesi dell’Asia Orientale.


La Panda Diplomacy

Guardando alla Cina, un caso di cui si è sentito molto parlare negli ultimi mesi è la cosiddetta “Diplomazia dei panda”. La Cina manda i propri panda in zoo all’estero per programmi di conservazione della specie, mantenendone però la proprietà esclusiva (anche sui cuccioli nati all’estero). Si tratta di un prestito vero e proprio regolato da appositi contratti che impongono il pagamento del Paese ospitante di una cifra annuale compresa tra 500 mila e un milione di dollari. I panda, emblema della Cina, sono considerati come degli ambasciatori inviati in Stati con i quali Pechino intrattiene buoni rapporti e vuole risaldarli.

Questa pratica ha origini lontane, infatti risale addirittura al VII secolo quando l’Imperatrice Wu inviò due panda al Giappone. Mao Zedong rispolverò questo gesto simbolico in occasione della normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti nel 1972, quando regalò una coppia di panda al Presidente Nixon, in seguito alla sua visita in Cina, enfatizzando il clima di distensione ed amicizia. Tuttavia, negli anni ’80, la diplomazia dei panda subì una trasformazione per via del nesso tra la conservazione di una specie a rischio di estinzione e gli interessi strategici della Cina. Il Paese ha ritenuto opportuno monetizzare questa tradizione e concedere i panda in ‘prestito scientifico’ agli zoo stranieri, con un occhio di riguardo al trattamento e alla cura.

Attualmente, per citare Elena Songster, vista la rivalità con gli USA anche sull’estensione del proprio raggio di influenza a livello globale, la Cina sta ritirando molti dei propri panda dagli zoo stranieri per aumentare il valore di quelli che sono rimasti in circolazione e poter negoziare in futuro nuove partnership da una posizione di maggiore vantaggio. Il ritiro dei panda dagli zoo americani previsto lo scorso novembre non avrebbe a che fare con il maltrattamento degli animali (al contrario hanno giocato un ruolo positivo nella conservazione), bensì si inserisce nella ben più ampia cornice delle ormai incrinate relazioni sino-americane. Secondo il quotidiano statale cinese Global Times sarebbero ben quindici i panda giganti rientrati in Cina: ai tre provenienti dagli Usa, si aggiungono anche quelli precedentemente inviati in Giappone, Francia, Paesi Bassi, Malesia e Regno Unito. Seppure intessendo nuovi legami, la diplomazia dei panda sembrerebbe continuare e nuovi panda sono stati mandati in Qatar lo scorso anno, a segnalare la proiezione delle mire cinesi in Medio Oriente.


La K-Pop Diplomacy

Se invece rivolgiamo lo sguardo verso la Corea del Sud la diplomazia non-tradizionale si sviluppa sul piano dell’intrattenimento. La rapida crescita dell’industria culturale coreana è il risultato di policies governative incentrate sull’esportazione della cultura, policies che col tempo si sarebbero evolute in strumenti diplomatici.

Secondo un famoso aneddoto, il Presidente Kim Young-sam avrebbe avviato il programma di riforme poiché convinto dagli impressionanti ricavi ottenuti da Jurassic Park: un singolo film aveva generato un incasso pari a quello dell’esportazione di 1.5 milioni di automobili Hyundai all’estero. Così dagli anni ’90 in poi l’industria culturale coreana cominciò la propria ascesa, ma fu il governo Lee Myung-bak a cambiare questa strategia, spostando il focus dall’economia in sé verso il national branding e una competitività intrisa di soft power.

Gli accademici hanno individuato tre periodi della cosiddetta “Korean Wave”: in un primo momento (fine anni ‘90) alcuni TV drama diventarono molto popolari solo in Asia, ma nel corso degli anni 2000 la Korean Wave si sarebbe estesa ben oltre i confini regionali grazie all’avvento dei social network e di piattaforme come Youtube. È soprattutto la diffusione del K-Pop ad aprire nuovi mercati per la Corea del Sud in alcune parti dell’Europa, America e Africa. Ma non solo, possiamo parlare anche di K-Pop diplomacy in quanto spesso gli artisti K-pop sono stati invitati ad esibirsi davanti ai leader stranieri con il duplice obiettivo di promuovere la cultura coreana e di rafforzare i legami politici, talvolta i loro album musicali sono persino stati regalati come doni diplomatici. Dal 2015 l’industria culturale sudcoreana si espande ulteriormente, esportando i propri prodotti in tutto il mondo, specialmente in Occidente. In particolare, aumenta anche l’offerta sudcoreana sul mercato: che non si limita più solo a musica e film, bensì coinvolge anche cartoni animati e videogiochi. Inoltre, Netflix e le piattaforme di streaming hanno contribuito a diffondere e produrre serie di successo come ad esempio Squid Game, che ha generato incassi che sfiorano il miliardo di dollari (891 milioni) e ha aumentato quasi del 7% le azioni della società californiana a seguito della sua uscita.


Come ci mostrano questi esempi, in Asia Orientale abbiamo Stati che, forti della loro crescente influenza a livello globale, sfruttano a proprio favore la riconoscibilità della propria cultura all’estero. Si tratta di un vero e proprio ‘nation branding’ che punta all’aumento degli investimenti, delle esportazioni, e del turismo. In altre parole, trasformano la riduzione operata dagli stereotipi in un potente strumento di soft power che contribuisce alla diffusione della cultura asiatica nel mondo e all’utilizzo di quest’ultima come ponte anche nei contesti diplomatici.






https://medium.com/revolutionaries/the-role-of-k-pop-in-international-relations-44d0b5a1e1ca

https://www.airuniversity.af.edu/JIPA/Display/Article/3212634/the-growth-of-south-korean-soft-power-and-its-geopolitical-implications/

https://www.politico.com/news/2023/11/08/panda-diplomacy-washington-beijing-00126078

https://www.economist.com/the-economist-explains/2019/01/18/why-china-rents-out-its-pandas?utm_medium=cpc.adword.pd&utm_source=google&ppccampaignID=18151738051&ppcadID=&utm_campaign=a.22brand_pmax&utm_content=conversion.direct-response.anonymous&gad_source=1&gclsrc=ds&gclsrc=ds

https://it.euronews.com/2023/12/05/lo-zoo-di-edimburgo-restituisce-i-suoi-panda-alla-cina-stessa-sorte-per-altri-15-nel-mondo

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