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Facebook, l'ora più buia

DI SIMONE BASILICO

26/11/2021

Frances Haugen, ex manager di Facebook, lo scorso 5 ottobre ha sostenuto, davanti al Congresso, che la piattaforma antepone il profitto al benessere degli utenti e che non ha controlli interni. Una tesi che traspare anche dai documenti che il Dipartimento di Giustizia sta utilizzando per condannare 25 persone per l’assalto a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio. Due indizi che spingono Facebook - ora Meta - verso l’ora più buia della sua storia.

Capitol Hill, Washington – 6 gennaio 2021. Non è ancora ora di pranzo quando Donald Trump inizia il suo ultimo comizio da Presidente degli Stati Uniti. Da lì a poche ore, infatti, il Congresso formalizzerà la vittoria elettorale del presidente eletto Joe Biden. Nessuno ancora immagina quello che sta per accadere. Nemmeno Rasha Abual-Ragheb (40 anni, dal New Jersey), Robert Bauer (44, Kentucky), Andrew Ryan Bennett (36, Maryland), Dona Sue Bissey (52, Indiana) e l’amica Anna Morgan-Lloyd (49, Indiana), James Bonet (29, New York), Jessica Bustle (36, Virginia) e suo marito Joshua Kahle Bustle (35, Virginia), Karl Dresch (40, Michigan), Valerie Ehrke (53, California), Scott Fairlamb (43, New Jersey), Jack Griffith (25, Tennessee), Jacob Hiles (42, Virginia), Derek Jancart (39, Ohio), Caleb Jones (22, Ohio), Abram Markofski (24, Wisconsin), Matthew Mazzocco (37, Texas),  Rachael Pert (40, Florida) e l’amica Dana Winn (45, Florida), Mark Simon (49, California), Michael Stepakoff (55, Florida), Jordan Stotts (31, Minnesota), Kelsey Wilson (29, Missouri) e suo marito Zachary Wilson (31, Missouri) e Andrew Wrigley (50, Pennsylvania). Negli scorsi mesi già sono stati tutti dichiarati colpevoli per l’assalto al Campidoglio di quel giorno. In comune, contro di loro, sono riportate prove (screenshot) acquisite dalla Fbi attraverso post, video o commenti degli stessi su Facebook. Ci sono numerosi elementi per sostenere che Facebook sia stato usato dagli assalitori come piattaforma per pianificare, organizzare e coordinare l’attacco, nonostante il tentativo di minimizzare da parte dell’azienda. Facebook è stato, tuttavia, di gran lunga il sito di social media più citato nei documenti che il Dipartimento di Giustizia ha presentato contro gli assalitori di Capitol Hill. Il colosso californiano ha provato a difendersi proponendo un frame alternativo: siamo stati i più disponibili nell'assistere le forze dell'ordine nelle indagini sugli utenti che hanno violato il Campidoglio.


In quelle stesse aule assaltate a gennaio, Facebook vive oggi la sua ora più buia. Viene già definita come “la più significativa fuoriuscita di informazioni interne nei 17 anni di storia” dell’azienda che gestisce anche Instagram e WhatsApp. Frances Haugen, ex manager di Facebook dal 2018 al maggio 2021, lo scorso 5 ottobre ha sostenuto, davanti al Congresso, che la piattaforma antepone il profitto al benessere degli utenti e che non ha controlli interni. Il cambio di denominazione dell’intero colosso californiano - da Facebook a Meta, avvenuto ufficialmente lo scorso 28 ottobre - sembra proprio una mirata operazione di pulizia d’immagine da una fama ormai opaca.


“I’m here today because I believe Facebook’s products, harm children, stoke division, and weaken our democracy. The company’s leadership knows how to make Facebook and Instagram safer, but won’t make the necessary changes because they have put their astronomical profits before people” (Frances Haugen, 5 ottobre, 00:13)


La whistleblowing ha letteralmente passato ricerche interne di Facebook al Wall Street Journal che, a partire da settembre, ha pubblicato l’inchiesta “The Facebook Files”. Si è scoperto che una modifica all'algoritmo interno di Facebook nel 2018, propagandata come un modo per aumentare le interazioni significative sulla piattaforma, in realtà ha incentivato post divisivi e disinformazione. L’azienda, inoltre, un mese dopo le elezioni Presidenziali 2020 ha sciolto il Facebook Civic Integrity Team – un gruppo di ricerca formato da 200 persone per comprendere l'impatto del social network sul mondo, mantenere le persone al sicuro e disinnescare la polarizzazione violenta – portando Frances Haugen a dimettersi qualche mese dopo, accusando Facebook di non voler più impegnare il lavoro di un team la cui priorità era mettere le persone davanti ai profitti. La nuova mission, secondo Haugen, sarebbe mirare all’aumento dell’interazione fra gli utenti – più entrate pubblicitarie e meno concorrenza – per farli tornare ogni giorno sulla piattaforma attraverso, appunto, post divisi e disinformazione. Facebook sostiene che le mansioni del Civic Integrity Team sono state redistribuite fra altri rami aziendali, ammettendo di fatto lo scioglimento del gruppo di lavoro. L’attacco al Campidoglio, in questo quadro, organizzato attraverso Facebook, assume contorni preoccupanti. Per la portata delle implicazioni sociali, tecnologiche e giuridiche delle accuse avanzate da Frances Haugen. Per la qualità del dibattito pubblico. Per il ruolo di Facebook nel mondo reale. Soprattutto negli Stati Uniti, dove qualunque forma di comunicazione è protetta dal Primo emendamento della Costituzione federale. Un approccio che non tollera alcuna interferenza dello Stato nell’esercizio della libertà d’espressione. Non sono previste, infatti, limitazioni in merito ai contenuti espressi o alle modalità con cui l’espressione avviene. Anche messaggi violenti e d’odio, dunque, possono essere diffusi liberamente online nel mercato delle idee, nel quale si presuppone che la corretta informazione emerga attraverso il libero confronto fra idee diverse. L’inchiesta del Wall Street Journal mostra che Facebook remi esattamente nella direzione opposta.


Mettere mano alla responsabilità per le attività online di terzi è argomento molto spinoso. Oggi, infatti, avendo tutti la stessa possibilità di accesso alla rete, chiunque può inviare commenti lesivi o di istigazione all’odio – anche verso le istituzioni, come avvenuto nel caso dell’assalto al Campidoglio – che possano offendere altri utenti all’interno di un’arena virtuale, più o meno chiusa, oppure promuovere azioni violente. Per ora, negli Stati Uniti, si è scelta la strada della de-responsabilizzazione delle piattaforme come Facebook per il contenuto violento che i provider contribuiscono a far circolare. Haugen ha esortato il Congresso ad approvare leggi ad hoc. Le proposte riguardano rendere Facebook e altre piattaforme di social media legalmente responsabili delle decisioni su come scelgono di classificare i contenuti nei feed degli utenti; modificare i feed delle notizie in modo cronologico anziché algoritmico; nominare un ente governativo esterno per la supervisione tecnologica; maggiore trasparenza sulla ricerca interna. Si può intuire che la possibilità di una piattaforma come Facebook di intervenire tecnicamente nei commenti degli utenti pone l’enorme questione della libertà d’impresa. Emerge la portata del problema e la complessità giuridico-normativa. Tuttavia, è maturo il momento per un intervento legislativo. Le prove raccolte dalla Fbi tramite Facebook, prima e durante l’assalto al Campidoglio, sono stato ritenute attendibili e usate per condannare finora 25 persone, dopo che la piattaforma aveva sciolto il Facebook Civic Integrity Team qualche settimana prima. In un recente report pubblicato dal Center for Countering Digital Hate – una ONG internazionale, con uffici a Londra e Washington, senza fini di lucro, che analizza l'odio online e la disinformazione – dal titolo “Hatebook, le vetrine neonaziste di Facebook finanziano l'estremismo di estrema destra”, emerge come Facebook e Instagram ospitino dozzine di account che vendono merce per finanziare l'estremismo di estrema destra, nonostante l’azienda sia a conoscenza di questi shop. Dietro questo account esistono reti internazionali di estremisti che utilizzano i social media come vetrine per raggiungere il pubblico mainstream e generare finanziamenti. Una palese distorsione dell’utilizzo della piattaforma che evidenzia ancora di più quanto sia necessario un intervento legislativo che renda responsabile i provider per i contenuti proposti, spingendo l’azienda nella direzione di un serio, programmato e certificato controllo dei feed. “Facebook, we have a problem” si potrebbe dire: il mondo virtuale offre infinite opportunità alla nostra società, ma la strada della de-responsabilizzazione totale delle piattaforme di social media rispetto ai contenuti prodotti sulle stesse sta avvelenando i pozzi della democrazia. L’ora più buia di Facebook può essere superata solo con una nuova alba normativa.

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