La guerra civile in Etiopia e la piaga dell'identità etnica
DI ELEONORA RINALDI
28/11/2020
Nel mezzo di una pandemia globale, l’Etiopia si trova a dover fare i conti con un conflitto che sta prendendo sempre più le sembianze di una guerra civile tra lo Stato federato del Tigrè e il governo federale di Abiy Amhed (premio Nobel per la pace 2018). Noi di HIKMA, abbiamo cercato di spiegare le origini di questo scontro e di smascherarne l'artefice: l’identità etnica.
“Se pensi che sia una minaccia, lo sarà, se pensi che sia un vantaggio, allora lo sarà”, è con queste parole che il presidente del Fronte di Liberazione Popolare del Tigrè (TPLF) ed ex-primo ministro etiope, Meles Zenawi, annunciò nel 1995 la nascita della federazione etiope.
Fu una riforma istituzionale a dir poco singolare, poiché a tracciare i confini degli odierni nove Stati regionali si scelse di adottare un criterio fin troppo esaltato nel corso della storia etiope: l’etnia.
L’Etiopia infatti conta circa 80 etnie per una popolazione di più di 110 milioni di abitanti, prevalentemente divisi fra i 4 gruppi maggioritari etnici: gli Oromo, gli Amhara, i Somali e i Tigrini.
Secondo Zenawi, un’organizzazione federale a base etnica, fondata sul libero esercizio del diritto di auto-determinazione dei popoli, sarebbe stata l’unica forma di governo, in grado di poter efficacemente rappresentare il delicato mosaico delle comunità etniche etiopi dopo decenni di regime afro-marxista sotto Menghistu.
La Costituzione federale sancita nel maggio 1995, impegnava i nove Stati federati, tracciati sulla base del gruppo etnico predominante (ad eccezione dello Stato delle Nazioni, Nazionalità e Popoli del Sud, formato da 46 gruppi etnici), alla costruzione di una comunità politica fondata sullo stato di diritto, sulla pace duratura e sullo sviluppo economico e sociale. Agli occhi dell’ex primo ministro tigrino, sarebbe stata la crescita economica a favorire il graduale processo di assimilazione etiope, incoraggiando le stesse comunità ad andare oltre le proprie divisioni etniche.
A distanza di 25 anni, l’ipotetica minaccia di un federalismo a base etnica in un Paese dai già precari equilibri, è diventata una triste realtà, quando il 4 novembre 2020, lo stato centrale guidato dal primo ministro Abiy Ahmed Ali, diede inizio ad un’operazione militare contro il TPLF, il partito di maggioranza dello Stato settentrionale del Tigrè.
Eppure, il conflitto armato, tuttora in atto, è solo la punta dell’iceberg di un antico intreccio di tensioni e rivalità, che crebbe esponenzialmente nel 2018, dopo l’elezione dell’attuale primo ministro Abiy di etnia oromo. Fin dai primi mesi in carica, Abiy si dedicò ad un progressivo avvicinamento e alla normalizzazione delle relazioni con l’Eritrea, la vicina e storica nemica con la quale l’Etiopia era in guerra dal 1998. Gli accordi di pace firmati in Arabia Saudita nel 2018 tra il capo di Stato eritreo, Isaias Afewerki e Abiy Ahmed, rappresentarono una grande vittoria per il nuovo leader etiope che nello stesso anno ricevette il premio Nobel per la pace. A fianco all’acclamato traguardo in politica estera, Abiy diede inoltre avvio ad un processo di rinnovamento politico-istituzionale che vide lo scioglimento della coalizione di governo EPRDF (Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo etiope) composta dai partiti delle principali etnie etiopi, tra cui quella tigrina, e all’istituzione di Prosperità un partito unitario trans-etnico a vocazione nazionale.
Il nuovo partito, tuttavia, non ottenne il favore del TPLF, il quale interpretò la nuova manovra del primo ministro come un tentativo di accentramento del potere nelle mani del governo federale, a favore delle etnie Omoro e Amhara, demograficamente maggioritarie, e a discapito della minoranza tigrina. Il rifiuto del TPLF ad unirsi a Prosperità, determinò la sua crescente marginalizzazione politica, dopo anni alla guida del Paese per mano di Zanawi.
Ad inasprire ulteriormente l’evidente malcontento del Tigrè, è stata la recente decisione di Abiy di rimandare le elezioni parlamentari, al fine di contenere la diffusione della pandemia. Il TPLF, reputando incostituzionale il provvedimento del governo federale ed ignorando il suo veto, tenne le proprie consultazioni locali, vincendo con la schiacciante maggioranza del 98,5% dei voti.
Il governo federale decretò il risultato elettorale invalido, reazione che infuriò il TPLF, innescando una serie di atti a dir poco allarmanti, come il sequestro di equipaggiamenti militari, la diserzione di diversi ufficiali dell’esercito nazionale etiope in favore delle forze armate del TPLF sino all’ attacco del TPLF ad una base dell’esercito federale a Mekelle, la capitale del Tigrè. Di fronte a questo “atto di tradimento”, il primo ministro ordinò un’operazione militare per reprimere la rivolta, ponendo fine a quella breve pace che aveva fatto ben sperare l’Etiopia e il resto del mondo di poter avviare un graduale ma continuo processo di stabilità e crescita.
Così, ciò che doveva essere una breve azione militare atta a riportare la stabilità territoriale dello Stato e a scongiurare qualsiasi pulsione secessionista del Tigrè, si è oggi trasformata in una guerra aperta che rischia di destabilizzare l’intera sicurezza del Corno d’Africa.
Per di più, il governo federale sin dagli inizi di novembre ha attivato nel Tigrè l’immediata sospensione delle comunicazioni via Internet, l’interruzione delle linee telefoniche e il divieto di accesso a giornalisti ed operatori umanitari, rendendo ancor più difficili la trasmissione di informazioni certe e gli interventi da parte di Paesi terzi.
Amnesty International, in collaborazione con una fonte locale, ha riportato il massacro di centinaia di civili, (prevalentemente di etnia amhara), che vennero “pugnalati o accoltellati a morte”. Nel condannare le atroci uccisioni che si stanno perpetrando nello Stato, l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU Michelle Bachelet ha richiesto un’indagine per presunti crimini di guerra.
Nel frattempo, lo Stato del Sudan, che attualmente sta attraversando una delicata fase di transizione democratica, è stato inondato da migliaia di rifugiati, il servizio europeo per l’azione esterna (EEAS), ne riporta più di 29.000. L’Unione Europea ha mobilitato 4 milioni di euro per assistere il Sudan in questa emergenza e l’ONU ha avviato una serie di missioni umanitarie per assistere il Paese nella gestione dei continui flussi di rifugiati.
Il 15 novembre, il conflitto ha oltrepassato i confini nazionali, con l’invio di alcuni razzi contro la capitale dell’Eritrea, Asmara, da parte delle forze del TPLF. In molti temono una “balcanizzazione” del Corno d’Africa, soprattutto se si considera la storica rivalità tra l’Eritrea e il TPLF, che, dal 1998, si consumò in un’incessante guerra conclusasi solo nel 2008 grazie alla leadership di Abiy. Tuttavia, la recente distensione nella relazione tra Abiy e Afewerki fa presupporre un probabile appoggio dell’Eritrea allo stato federale in funzione anti-tigrina.
A rendere lo scenario ancora più complesso è lo stesso carattere dell’etnia tigrina, la quale seppur numericamente minoritaria vanta un’innegabile abilità militare. Di fatti, un numero non trascurabile di ufficiali dell’esercito etiope sono tigrini, e molte fra le più potenti armi in possesso dell’Etiopia si trovano proprio nello Stato del Tigrè, un aspetto quest’ultimo che ci spinge ad ipotizzare che la guerra possa protrarsi ancora a lungo.
Quello dell’Etiopia non è tuttavia il primo conflitto a sfondo etnico ad affliggere il continente. La devastante guerra tra le etnie Hutu e Tutsi negli stati del Ruanda e del Burundi è solo uno dei tanti drammi che costellano la tormentata storia delle etnie africane.
Analizzando l’origine di questi scontri è possibile astrarre dalle diverse culture africane una sorta di schema comportamentale comune, le cui radici affondano nel travagliato concetto di identità etnica. L’antropologo Ugo Fabietti ha descritto questo concetto come “il risultato di una serie di operazioni tanto spontanee quanto sistematiche” che si svilupparono in seno alla cultura occidentale europea e colonialista durante il diciottesimo secolo. Fu infatti l’ossessione classificatrice occidentale che, nel corso del 1700, iniziò a trasferire le procedure analitiche delle scienze naturali alla riflessione antropologica, sviluppando una visione del genere umano come diviso in isolati etnici distanti ed incomunicanti. L’appartenenza etnica pretendeva così di rappresentare una realtà eterna e naturale, quando non era altro che il prodotto di una rappresentazione contingente, la quale spesso aveva poco a che vedere con la storia e con i processi sociali alla base di una determinata cultura.
Quando il concetto di etnia venne poi esportato nei territori colonizzati, in culture che, nonostante la diversità fra gruppi, erano totalmente prive di divisioni etniche, i dominati iniziarono ad assumere la narrativa dei dominatori. Allo scopo di prevenire qualunque progetto di unità da parte delle popolazioni colonizzate, l’“etnicizzazione” operata dai colonizzatori portò diversità e divisione laddove esisteva diversità e convivenza, creando così le premesse per la nascita dei futuri conflitti etnici, proprio come nel caso etiope.
Per evitare il continuo protrarsi di queste guerre, non basterà agire a livello economico, ma bisognerà intervenire in primis a livello ideologico. Sarà necessario introdurre nuove prospettive che, invece di evidenziare le differenze etniche, possano esaltare le profonde interdipendenze e relazioni che da sempre hanno caratterizzato queste comunità. In altre parole, sarà fondamentale promuovere una narrazione propriamente trans-culturale che possa andare oltre i confini etnico-linguistici dei nove stati federali, ed offrire una valida alternativa ad una federazione che dovrebbe fare delle proprie differenze virtù.
“La demonizzazione dei gruppi etnici è un circolo vizioso e letale dal quale l'Etiopia deve essere risparmiata” afferma il vice-presidente e alto rappresentante dell’UE Joseph Borell. È ironico e allo stesso tempo fondamentale che proprio dall’Unione europea parta questo monito.
L’auspicio è che l’UE faccia propria questa nuova narrativa e che continui a far leva sull’Etiopia affinché quest’ultima possa guardare alle proprie differenze, attraverso nuovi filtri transculturali.