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La questione palestinese al bivio: conversazione con Davide Frattini

DI CELESTE LUCIANO

09/08/2020

Con Davide Frattini esperto conoscitore del “caos mediorientale” e noto corrispondente presso il Corriere della Sera e l’ANSA, abbiamo cercato di individuare degli elementi di analisi più dettagliati per cercare di capire le logiche esterne ed interne che continuano a ravvivare, seppur in maniera meno violenta rispetto allo scorso decennio, un fuoco latente nello scenario internazionale: la questione palestinese.

Il primo luglio il mondo era pronto a vedere lo stato di Israele espandere i propri confini annettendo ufficialmente i territori occupati della Cisgiordania in direzione dell’ambita Valle del Giordano, preziosa e tormentata da faide millenarie che sembrano non trovare soluzione neanche in questo secolo di promozione della pace e della sicurezza fra le nazioni, di crescita economica e di indiscussa inderogabilità formale del principio di autodeterminazione dei popoli e dello stesso ordinamento internazionale. Esso risulterebbe leso, ancora una volta, secondo i principi generali dell’ONU e la Quarta Convenzione di Ginevra vieta un atto unilaterale di annessione dei territori occupati. Evidentemente, i presupposti all’applicazione di queste nuove virtù del secolo scorso si muovono più lentamente rispetto agli interessi in gioco che si sommano giorno dopo giorno, acuiscono le tensioni fra un sempre più alto numero di persone, radicando l’ineluttabilità di conflitti violenti in mancanza di una soluzione negoziale e compromissoria.

Quel giorno sembrava rappresentare una data simbolicamente storica: il piano di Annessione della Cisgiordania annunciato da Washington a gennaio, la cui attivazione è stata annunciata dal primo ministro Netanyahu, e dal suo rivale ed amico al governo Benny Gantz, avrebbe garantito ai libri di storia di narrare le vicende e le tappe di un conflitto catastroficamente lungo aggiungendo un piccolo sviluppo grazie all’ ennesimo intervento dell’impero statunitense come potenza stabilizzatrice nelle sue aree di intervento strategico. Un’ulteriore meta si sarebbe aggiunta, forse, ad un inevitabile processo di catalizzazione del risentimento verso il violatore, di legittimazione del paradosso della violenza quale mezzo unico per instaurare la pace, l’avanzamento di un cammino di cui tutti parlano, molti percorrono e pochi conoscono davvero.

Con Davide Frattini esperto conoscitore del “caos mediorientale” (così come chiamato dalle stabili democrazie occidentali) e noto corrispondente presso il Corriere della Sera e l’ANSA, abbiamo cercato di individuare degli elementi di analisi più dettagliati per cercare di capire le logiche esterne ed interne che continuano a ravvivare, seppur in maniera meno violenta rispetto allo scorso decennio, un fuoco latente.

Frattini ci spiega subito come questo piano di annessione sia permeato di ambiguità e perplessità: non prevede, infatti, specificazioni salienti circa le aree da annettere allo stato di Israele. Inoltre, la sua sospensione, presumono gli analisti Israeliani, è una conseguenza diretta dello “stop” del governo statunitense, impegnato nella lotta al Coronavirus, oltre che alla scienza ed alle autorità internazionali. Come spiega il corrispondente, l’annuncio rivelatosi prettamente politico, ha acquisito minor risonanza mediatica progressivamente alla crescita del tasso di contagiosità del virus. Lo stesso Gantz ha trovato nella lotta cl Covid19 un motivo per abbandonare la lunga rivalità con il Likud, guidato da Netanyahu, e, secondo i giornali israeliani, ha pressato il governo statunitense di sospendere l’iniziativa di annessione, assieme all’ex capo di Stato maggiore ed acerrimo nemico di Hamas Gabi Ashkenazi.

Nessuna preoccupazione, neanche per Washington

Il piano sicuramente sarà implementato ed attivato non appena la situazione emergenziale e politica tornerà stabile. Infatti, il ruolo che Israele ha nel collaudare la potenza statunitense in Medio Oriente, è sempre più necessaria a fronte della crescita delle ostilità con tutti gli Stati Arabi, Iran in primis, a protezione delle truppe, delle basi e degli interessi dell’impero sempre più osteggiati. Il disimpegno sui fronti tradizionali dell’intervento armato devoto alla democrazia e alla pace che ha caratterizzato la politica estera statunitense, come in Siria, può forse essere compensato, per il ministero di Trump, da un rafforzamento indiretto della sua presenza nell’area attraverso l’estensione (illecita) dell’ordinamento israeliano e della sua giurisdizione sui popoli antichi. La scelta, tuttavia, ha una forte validità in politica interna. Come ci spiega l'esperto, in vista delle vicinissime elezioni presidenziali il rinsaldamento dei legami con il governo israeliano e il radicamento dell’inimicizia rispetto ai popoli arabi, aiuterebbe il candidato repubblicano a garantirsi i voti dei cristiani evangelici, il cui elettorato tradizionalmente rosso, assume connotazioni sempre meno prevedibili, ma il cui appoggio al dominio israeliano è sempre vivo e teologicamente inesauribile.

D’altra parte, la causa palestinese risulta sempre meno supportata dai tradizionali sostenitori arabi ed islamici. L’inaspettata vittoria di Hamas nel legislativo dell’Autorità Nazionale Palestinese del 2006 aveva leggermente oscurato il potere di Al-Fath, guidato da Mahmud Abbas (Ābu-Māzen), rimanendo la forza politica più votata in Cisgiordania: ne derivò uno scontro per il controllo militare delle zone dove lo sfidante era più sostenuto e dunque ad una scissione tutta interna al nazionalismo arabo a livello politico e paramilitare che ancora perdura. Nel 2007 gli eletti di Hamas nell’organo legislativo dell’ANP, il Consiglio Legislativo Palestinese, furono eliminati fisicamente o allontanati dalle loro posizioni in Cisgiordania, affidate al Fath o a membri liste indipendenti. Tuttavia, Hamas controlla la striscia di Gaza e promuove ampi programmi formativi, sanitari, e servizi pubblici vari. In questa luce, appare opportuno considerare lo Stato Ebraico alleato, più che nemico, del gruppo etichettato ufficialmente terroristico, in virtù della sua opposizione all’intera Organizzazione per la Liberazione Palestinese (OLP). Così, spiega il corrispondente, si spiega anche il via israeliano ai finanziamenti provenienti soprattutto dal Qatar che rinvigoriscono quei sottili fasci di speranza sociale ed umanitaria nella striscia di Gaza, destinandoli ad Hamas.

Anche la posizione del vicinissimo Egitto è contrassegnata da ostilità. Dal 2011 la cacciata di Mohammed Morsi del “Partito Libertà e Giustizia” in qualità di distaccamento egiziano dei Fratelli Musulmani e co-partecipatore all’ideologia arabo-islamista come virtù sociale e statale, ha legittimato l’appoggio dei manifestanti di piazza Tahrir all’intervento dell’esercito per contrastare un’ideologia poco aperta alla liberalizzazione dell’economia e della società. Successivamente, l’instaurazione del governo di Abdel Fattah Al-Sisi dal 2014, notoriamente prodigo alla laicizzazione totale dell’apparato statale e della società e alla lotta contro le milizie estremiste salafite, hanno contrassegnato avversità contro la presenza dei Fratelli Musulmani a Gaza, rappresentata proprio da Hamas.

D’altronde, ci spiega il giornalista, il complesso tentativo rivoluzionario scatenato nel 2010 in Tunisia che ha dato avvio alle cosiddette “Primavere Arabe” ha comportato una concentrazione degli sforzi progressisti ed emancipatori degli attivisti e delle organizzazioni politiche, oltre che dei cittadini, all’interno dei propri confini nazionali nella richiesta dei diritti civili, politici, economici e sociali che hanno caratterizzato le numerose proteste e rivendicazioni.

L’ondata di rivendicazioni del 2011 così come quelle del 2019 sono state contrassegnate da numerose fratture, da quella fra minoranza e maggioranza religiosa, etnia, ideologia e visione istituzionale della società, che sono state accolte ed hanno sortito effetti diversissimi nelle varie regioni, influenzando inderogabilmente i rapporti geopolitici non solo nell’area M.E.N.A., ma anche le relazioni internazionali. Infatti, il regime di Assad, quello di Gheddafi, o di Hosni Mubārak in Egitto, tradizionalmente favorevoli a supportare ideologicamente e materialmente la causa palestinese pur essendosi rinnovata nel tempo, non hanno più avuto i mezzi istituzionali o finanziari per promuovere la lotta all’invasore delle organizzazioni o dei gruppi ribelli palestinesi, nelle loro più variabili forme.

Il fronte interno del conflitto interminabile

Davide Frattini ci delucida anche in merito ai sentimenti sociali che animano la politica nello Stato di Israele. I recenti sviluppi economici, stimati nel quadro di una crisi economica di dimensioni globali, e le gravi implicazioni sanitarie, sociali ed economiche della funesta epidemia da Covid-19, stanno radicalizzando l’opposizione nei confronti del debole governo di coalizione e le proteste di sempre più manifestanti nelle città. L’OCSE ha stimato che il PIL del 2020 sarà del 6,2% inferiore all’anno precedente, in un’economia già messa alla prova dalla disoccupazione, che si stima crescere del 7% nel terzo quarto dell’anno più duro dal 1929, per cui il governo Netanyahu ha approntato una piccola espansione di sussidi a protezione del mercato del lavoro.

Sul fronte della dura battaglia al Covid19 Israele si era mostrato rapido e combattivo, fino a che il governo ha annunciato ripresa di tutte le attività economiche e scolastiche già da metà aprile nonostante l’ammonimento degli esperti.  Già nella terza settimana di luglio i contagi giornalieri hanno raggiunto, in un paese di circa 8 milioni e mezzo di abitanti, i livelli degli Stati Uniti con circa 2000 infetti al giorno, tanto da predire una vera e propria seconda ondata in cui il virus potrebbe costringere ad un più duraturo ed incisivo, lockdown.

In questa situazione l’unità del popolo ebraico viene progressivamente meno ed il supporto al governo, nato dalla sua ambiguità per voler contrastare nel modo più efficiente l’epidemia e rinvigorire presto l’economia del piccolo paese esportatore, risulta deluso da sé stesso. Lo spostamento dell’elettorato a destra è evidente da quando Netanyahu ha preso il potere nel 2009 come Primo Ministro dopo varie esperienze negli altri ministeri. La sua figura ha contribuito decisamente all’evanescenza della soluzione di una divisione dei territori di contesa in due stati fortemente sostenuta da Rabin. In aggiunta, il ritiro da Gaza voluto da Sharon nel 2005 pur con il controllo dei confini e delle acque in mano ad Israele con la guerra e l’embargo che sono derivati, la seconda Intifada ed il periodo di terrore legato agli attentati Kamikaze “hanno sostanzialmente tolto dal tavolo negoziale la soluzione dei due stati come dimostra il piano di annessione della Cisgiordania”. In questa situazione, il processo per corruzione da poco iniziato ai danni di Netanyahu può rappresentare il fattore scatenante dell’ondata di proteste, i cui obiettivi restano la politica interna, la corruzione, la crisi economica e la reazione dell’élite, la politica militare in uno spirito di rinnovamento in cui la questione dei popoli dei territori occupati non trova più posto.

In questo senso anche la comunità internazionale ha congelato i rapporti con l’autorità palestinese, ci spiega il giornalista. Il piano di annessione può contribuire ad una ripresa del dibattito, nel mondo occidentale, circa nuove strategie di politica estera che incidano sulla situazione ai confini israelo-palestinesi, la cui salienza sembra essersi dissolta nel mondo occidentale. L’esempio di una Italia in cui il forte sostegno del governo Berlusconi e la visita diplomatica a Gerusalemme del Ministro degli Esteri Gianfranco Fini rimangono l’apice di un appoggio incondizionatamente significativo della classe politica italiana alle pretese di Israele possono dunque dirsi avvallate da un silenzio-assenso istituzionale sulla questione, riflesso in tutti gli stati occidentali.

Le proposte negoziali portate avanti tanto da Washington quanto da Tel Aviv finalizzate allo scambio dei territori, alla creazione di nuovi confini o parametri di controllo e governo sulle zone contese (in primis nella Valle del Giordano) nonché il piano di annessione firmato Trump, non trovano un compromesso con l’ANP ma secondo Frattini un passo verso la stabilità non sembra lontano. Infatti, sembra che le autorità arabe possano essere favorevoli ad uno scambio di territori principalmente attorno a Gerusalemme e una costruzione di nuove vie di comunicazione e trasporto tra Cisgiordania e Gaza così come previsto dal piano di annessione non ancora attuato. Comunque, se la stabilità economica di tutte le aree contese è imprescindibile per approdare ad una soluzione soddisfacente per le autorità e soprattutto per i popoli residenti ai margini delle scelte politiche, spesso abbandonati ai movimenti di lotta violenta nel tentativo paradossale di pace e diritti, una stabilità politica lo è più che mai. Anche la successione ad Ābu-Māzen nello Stato di Palestina, seppure non discussa neanche nel partito Fatah, sarà determinante per rilanciare i rapporti con Israele, determinare confini stabili e sicuri e promuovere il progresso umano ed economico, riducendo povertà e dunque criminalità.

Anche in questo scenario incerto sul fronte maledetto di un conflitto che appare interminabile, il Covid19, nella sua dimensione economica, dispiegherà le sue conseguenze di portata dicotomica: cooperazione e compromesso o scontro e rivendicazione? In questo intervallo di eventualità, la questione resta ancora aperta ad ogni tipo di scelta.

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