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I discorsi presidenziali americani: intervista a Lorenzo Pregliasco

DI CARLO TOSI

23/02/2021

Il workshop di Hikma In Words we Trust, Speeches that shaped American politics vedrà la presenza, tra gli altri, di Lorenzo Pregliasco. Lo abbiamo intervistato a qualche giorno dall’incontro

Negli ultimi anni il linguaggio ha attirato sempre più l’attenzione e l’interesse dell’opinione pubblica. La comunicazione politica, ovvero il linguaggio utilizzato dai politici e dall’ambiente che li circonda, è l’essenza dei discorsi presidenziali. Spesso ricordati dal grande pubblico per la brillantezza retorica e per alcuni slogan che hanno fatto storia. Hikma ha quindi voluto approfondire il tema con il workshop In Words we Trust, Speeches that shaped American politics, che si terrà venerdì 26 febbraio. In attesa dell’incontro abbiamo intervistato Lorenzo Pregliasco, co-fondatore di Quorum, direttore di YouTrend e docente all’Università di Bologna. Insieme ad Anna Camaiti Hostert e Pasquale Annicchino, Lorenzo Pregliasco sarà uno degli ospiti del workshop.


Per rimanere in sintonia con gli eventi americani degli ultimi giorni, quali sono i tratti caratteristici del discorso inaugurale di Biden, cosa lo hanno distinto e quali aspetti invece hanno ripreso modi e stili dei presidenti precedenti?


I tratti caratteristici del discorso inaugurale di Biden sono la sobrietà di fondo e il tema – ricorrente nei messaggi del Presidente durante la campagna elettorale – di unificazione e di pacificazione nazionale, in un quadro di polarizzazione molto marcata della comunicazione politica negli Stati Uniti. Non è in sé un discorso particolarmente diverso da modi e stili dei presidenti precedenti. Sicuramente però costruisce una diversità rispetto al presidente immediatamente precedente Donald Trump, il cui discorso inaugurale nel 2017 fu invece piuttosto cupo. In quel discorso c’erano comunque riferimenti all’inizio di una stagione nuova in cui Trump sarebbe stato il presidente di tutti, ma venivano rimarcati dei fattori di divisione e c’era un grande riferimento alle ragioni profonde, secondo Trump, della sua vittoria elettorale. Mi pare che questa parte in Biden fosse assente, che ci fosse sostanzialmente la volontà di aprire una pagina nuova.


L’elezione nel 2016 di Donald Trump ha rappresentato una discontinuità netta con la presidenza Obama e più in generale con la politica statunitense. Questo segno di rottura col passato è presente nei discorsi pubblici di Trump? Se sì, in che modo?


La rottura di Trump si riscontra sicuramente anche nei discorsi. C’è un fattore di interesse che è legato al fatto che laddove Trump ha pronunciato discorsi scritti la tendenza è stata quella a pronunciare discorsi meno atipici, rispetto a quelli a braccio. Tant’è che gli osservatori americani, quasi scherzosamente, hanno evidenziato questo dualismo tra il teleprompter Trump, cioè quello che ha un gobbo elettronico davanti, con un testo scritto e che tende ad essere un po’ più istituzionale e moderato, nei binari consueti della comunicazione, e invece il Trump a braccio, che tende a rompere molti schemi, anche a livello linguistico. Con un linguaggio fatto di frasi molto brevi, in cui ci sono i famosi nomignoli dedicati e destinati agli avversari esterni e interni, soprattutto in campagna elettorale. Ci sono insomma tratti evidenti di una diversità rispetto a quelli che nel bene e nel male sono stati i binari tradizionali della retorica politica americana e presidenziale.


C’è un discorso o intervento pubblico che lo ha colpito o a cui è particolarmente legato? Ci spiega il perché?


Sono legato ad uno dei discorsi di cui parleremo anche nel workshop, cioè quello tenuto da Obama nel 2008 dopo la sconfitta in New Hampshire, quello del Yes we can. Ricordo di averlo visto all’epoca nella piena notte italiana, quando seguivo con molte notti insonni quella campagna elettorale, quelle elezioni primarie e poi presidenziali del 2008. È chiaramente un discorso che colpisce per il momento a cui è legato, ovvero la sconfitta in New Hampshire alle primarie. L’intervento di Obama riconosce la battuta d’arresto ma pone le basi, sotto molti aspetti, per una vittoria, che viene ricavata dalle difficoltà della congiuntura di quel momento. Questo discorso è inoltre la consacrazione di una figura politica e di un oratore fuori dall’ordinario come Barack Obama. La ricordo anche perché poi divenne una sorta di canzone a cui parteciparono diverse celebrities americane in vista del super Tuesday che sarebbe stato di lì a poche settimane. Quindi ha avuto anche quella vita musicale e artistica che denota quanto quel discorso avesse in sé il potenziale di ritmica, di intonazione, insomma il potenziale per diventare altro, per non fermarsi ad essere soltanto un qualsiasi messaggio elettorale. Ed è stato peraltro quello il momento nel quale yes we can diventa una sorta di slogan ufficiale della campagna di Obama, che fino a quel momento non era stata granché.


Ma c’è anche un discorso o intervento che secondo lei è considerabile tra i peggiori? Che non è proprio riuscito nell’intento di comunicare efficacemente con il pubblico?


Non è una domanda semplice. È difficile ricordare discorsi che non riescono nell’intento di comunicare efficacemente. Non è poi così probabile che un discorso, essendo tendenzialmente preparato, sia un disastro totale. È più probabile invece che sia un discorso sostanzialmente poco incisivo e che quindi finisca nel dimenticatoio dei discorsi politici. Se vogliamo, un paradosso al quale recentemente abbiamo assistito è stato la mancanza di un discorso di cui invece avremmo dovuto avere testimonianza, cioè quello del riconoscimento della sconfitta da parte di Trump.  Senza entrare nei dettagli della vicenda, metterei tra i peggiori momenti della transizione politica americana e della storia delle transizioni politiche americane, questa mancanza, questa assenza di discorso. Segno che almeno in questo caso quasi qualunque discorso sarebbe stato meglio di ciò a cui non abbiamo assistito. L’unica forma di reazione alla sconfitta, da parte del presidente uscente, è stato un costante tentativo di disinformare, di agitare gli animi, che poi ha portato alla tragica conclusione del 6 gennaio.

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