Tutto quello di cui un tibetano non può parlare
DI MATILDE DANI
12/12/2020
L'obiettivo di "mantenere vivo il concetto politico di un Tibet autonomo all'interno del Tibet e tra diverse nazioni straniere" è stato effettivamente perseguito?
È nell’ottobre del 1949, durante le manifestazioni per la vittoria contro le forze nazionaliste di Chang Khai Shek, che Mao Tze Tung annuncia per la prima volta che il Tibet sarebbe stato inglobato nella Repubblica Popolare. Considerato come parte integrante della Cina questo sarebbe stato “sottratto una volta per tutte allo sfruttamento da parte dei monaci e alle mire delle nazioni imperialiste”, specialmente di quelle anglo-americano.
Un anno dopo, quasi tacitamente, tale promessa divenne realtà: il 7 ottobre 1950 di fronte a un’opinione pubblica mondiale praticamente assente, l’Esercito di liberazione popolare cinese invase il territorio tibetano con la battaglia di Chamdo. In seguito, la maggior parte dei territori Tibetani furono occupati e la classe politica e dirigente tibetana fu eliminata Per questo, come ultima ratio, la popolazione nativa decise di conferire pieni poteri all’autorità religiosa del Dalai Lama.
Il ruolo del Dalai Lama
È di particolare importanza sottolineare l’importanza che il Lama ha per la popolazione tibetana, in quanto figura religiosa. Egli rappresenta, per i credenti, la reincarnazione del Buddha: per fare un paragone, è come se i cristiani non aspettassero il ritorno del Messia, ma bensì credessero che egli sia sempre in terra a guidarli ed aiutarli. Proprio per questo il Dalai Lama è una presenza che influenza moltissimo le abitudini, le azioni e la forma di pensiero degli abitanti del Tibet.
Le trattazioni Dalai Lama-Cina
Il Dalai Lama aveva 15 anni al tempo dell’invasione del Tibet, ed essendo stato scelto come rappresentante del popolo, egli voleva alleviare il peso dell’occupazione sulla popolazione nativa e per questo, durante la sua visita a Pechino del 1951, si vide costretto a sottoscrivere il cosiddetto “Accordo dei diciassette punti” . Il trattato prevedeva che il Tibet entrasse ufficialmente all’interno della Repubblica popolare cinese, presupponendo quindi il riconoscimento della sovranità delle autorità cinesi sul territorio, e l’istituzione dei quartieri militari cinesi. Ma le forze occupanti non si limitarono a questo: nell’Accordo si sancisce anche che le istituzioni politiche e religiose, così come la cultura locale, non sarebbero state toccate, al contempo però gli occupanti si impegnavano ad inserire gradualmente delle riforme all’interno della società.
Il Lama con la sua delegazione decise di tornare in Tibet e di riportare la sua residenza a Lhasa(in tibetano ལྷ་ས་གྲོང་ཁྱེར། significa “trono di Dio”), dove dovette confrontarsi con crescenti difficolta nel conciliare le varie aree di pensiero.
L’opposizione
Dal 1952 il governo cinese diede avvio ad una campagna di “cinesizzazione”, eliminando tutti gli elementi propri della cultura tibetana, fossero essi religiosi o meno.
Il popolo tibetano, lasciato solo dalla comunità internazionale, iniziò a rivoltarsi contro le autorità cinesi occupanti ma con scarsi risultati. Nel 1959, però, la CIA ritenne di dover intervenire, per aiutare i rivoltosi con una campagna contro la Cina comunista. Ecco perché venne avviato il programma tibetano, il cui era obiettivo era "mantenere vivo il concetto politico di un Tibet autonomo all'interno del Tibet e tra diverse nazioni straniere". Nel progetto dei servizi americani era stato previsto il prelevamento dei tibetani contrari all’occupazione e il loro successivo e temporaneo trasferimento nel deserto del Colorado a Camp Hale, dove furono addestrati e poi riportati nella nazione tibetana per opporsi alle forze cinesi. Questa iniziativa ebbe l’unico pregio di pesare enormemente sulle casse della Repubblica Popolare Cinese, ma non aiutò la causa della liberazione del Tibet. Il programma fu abbandonato poi quando gli Stati Uniti decisero di avvicinarsi alla Cina, lasciando la popolazione tibetana sola contro le forze occupanti.
La fuga
Mentre la popolazione si trovava piegata, il Dalai Lama nel 1959 si trovò costretto alla fuga dopo gli episodi del Monlam Chenmo, la festa della Grande Preghiera. Era la notte tra il 17 e il 18 marzo quando Tenzin Gyatso(XIV Dalai Lama) con un gruppo ristretto di persone, cercò rifugio nella parte meridionale del Tibet, non ancora occupata, per poi muoversi stabilmente in India a Dharamsala. A questa fuga Mao decise di rispondere con azioni distruttive da parte dell’artiglieria, che colpirono il palazzo di Potala, abitazioni civili e i civili stessi, tra i quali molti morirono.
Il popolo tibetano però non rimase inerme innanzi a questo attacco, e con i pochi mezzi a sua disposizione(bastoni, asce e coltelli) cercò di combattere contro i militari cinesi; questi ultimi, però, diedero avvio ad un vero e proprio massacro. Dopo questo evento, il governo di Pechino decise di sciogliere ufficialmente il governo tibetano, venendo meno anche a quelle che erano state le promesse fatte nel Trattato dei Diciassette punti.
Cosa successe alla popolazione?
Le forze occupanti iniziarono una sorta di pulizia etnica attraverso una massiccia ricollocazione dei cinesi all’interno delle zone del Tibet, associata alla già citata soppressione della cultura della popolazione nativa. Da questo momento ai tibetani, ormai considerati cittadini di seconda categoria, era fatto divieto di affermare di essere tibetani o di utilizzare la lingua tibetana, questi inoltre non hanno accesso alla vita politica. Interi quartieri vennero abbattuti, le aree storiche vennero sostituite da enormi edifici e appartamenti e ogni riferimento al Dalai Lama e all’indipendenza era, ed è, espressamente vietato.
La popolazione tibetana, di giorno in giorno, vedeva smantellarsi innanzi ai propri occhi la propria cultura, le proprie case e i propri templi. È in quest’ottica che si devono vedere i gesti estremi dei monaci tibetani, i quali iniziarono a darsi fuoco, nel 2009, in nome della libertà della libertà della loro nazione. Gesti che ricordavano l’immolazione del monaco buddista a Saigon Thích Quảng Đức e il giovane studente praghese Jan Palach: tutte figure chiave della storia contemporanea che sono immagini di richieste estreme di libertà. A questi gesti il governo cinese rispose con incarcerazioni massicce, durante le quali i monaci subivano le torture più disparate, famose sono quelle con i pungoli elettrici, sperimentate anche dal famoso monaco Jampa Tenzin che venne anche assassinato durante la sua prigionia dopo la sua strenua resistenza contro l’occupazione.
Tenzin Gyatso non ha abbandonato il suo popolo
Dalla fuga nel 1959 in poi il XIV Dalai Lama si impegnò notevolmente per ottenere l’attenzione e il supporto della comunità internazionale. Apice di questo suo impegno fu il riconoscimento del Premio Nobel per la Pace nel 1992. In risposta all’unione delle altre nazioni attorno alla figura di Tenzin Gyatso e per limitare l’influenza di quest’ultimo sulla popolazione tibetana, il governo cinese ha deciso, nel 2011, di modificare l’elezione del futuro XV Dalai Lama, il quale sarà nominato dalle autorità cinesi, cercando di spezzare lo spirito tibetano. Ad oggi inoltre è fatto divieto di entrare all’interno dei territori tibetani, per decisione delle forze occupanti.
È di notevole importanza rilevare come, sebbene la comunità internazionale abbiamo mostrato il suo appoggio nei confronti del Dalai Lama, non vi sia stato supporto poi per la causa tibetana in sé:nessuno stato ha riconosciuto mai l’indipendenza dello stato tibetano.
Il Tibet a settanta anni dall’inizio dell’occupazione
Ad oggi il governo di Deng Xiaoping, da molti descritto come il nuovo Mao, dipinge il Tibet come un luogo dotato di una semi-autonomia, sicuramente avanzato e ricco seppur ancora fortemente impregnato della sua cultura. I pochi reporter che hanno fatto ingresso nei territori tibetani però descrivono una situazione differente: la popolazione tibetana è stata completamente sradicata e sostituita dal gruppo etnico cinese Han, che occupa il più delle posizioni lavorative, lasciando i nativi ai margini della società. Le grandi costruzioni e le innovazioni importate all’interno del territorio non vanno a beneficio dei tibetani. La repressione non colpisce solo i civili ma anche i monaci, che sono costretti ad una sorveglianza costante all’interno dei monasteri.