La dis-Unione Europea
DI ALESSANDRO ZAPPI
4/06/2020
La disintegrazione dell’Unione Europea può essere considerata come uno scenario possibile? La Brexit rappresenta il principio di questo sgretolamento?
Sempre di più lo spettro della disintegrazione, intimamente legato all’euroscetticismo, si aggira per l’Unione Europea. Dagli “italiani” di Salvini agli “ungheresi” di Orban, molti partiti euroscettici cercano di emancipare il proprio popolo nei confronti di un’Europa vista sempre più come peso e non come opportunità. Inoltre, non mancano movimenti la cui unica intenzione è quella di far uscire il proprio Paese dalla “gabbia” europea, per esempio l’Union Populaire Républicaine francese di François Asselineau. In questo contesto il futuro dell’Unione Europea non si prospetta come uno dei più rosei. E ci si chiede: è possibile una disintegrazione europea, e quanto è probabile?
Cosa piace e non piace dell’Europa
Mettendo da parte le considerazioni su valori come libertà e democrazia e abbracciando una visione puramente realista, l’Unione Europea fa gola per il suo mercato. Innanzitutto perché esso rappresenta una possibilità ghiotta sia per la sua ricchezza che per il numero di consumatori (circa 500 milioni). In secondo luogo, perché “il mercato europeo logora chi non ce l’ha” siccome, essendo un’unione economica, gli Stati membri trovano quasi sempre più conveniente comprare i beni e servizi di cui necessitano da un altro Stato membro: l’annullamento delle barriere commerciali e la libera circolazione hanno infatti reso molto più conveniente e competitivo il commercio nell’Unione. Il mercato funge quindi da magnete per gli Stati che hanno bisogno di ritrovare una certa competitività economica. Tuttavia, se essere parte dell’Unione Europea si riducesse al solo commercio, non si spiegherebbero tutti questi movimenti euroscettici. Nonostante l’UE mantenga una forte vocazione economica, appartenere alla comunità significa anche permettere la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione e la delegazione sovrastatale, ma anche contribuire al budget europeo e molto altro. Queste sono solo alcuni degli aspetti che non piacciono dell’UE, ma che sono già abbastanza numerosi per far capire come i movimenti euroscettici trovino terreno fertile tra gli elettori.
La disintegrazione europea come scenario futuro
L’Unione Europea potrebbe veramente disintegrarsi? Se non è possibile prevedere il futuro, certamente però possiamo esporre i punti deboli dell’attuale progetto europeo e le possibili soluzioni.
Innanzitutto, è necessario partire dalle debolezze dell’Unione Europea. Queste sono essenzialmente due: l’allargamento del 2004 e l’assenza progressiva di una forza egemone. Per quanto riguarda il primo punto, nel 2004 l’UE ha ampliato i suoi confini, accettando ben 10 nuovi Stati: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta (ai quali vanno aggiunti nel 2007 la Bulgaria e la Romania). Questa estensione verso l’ex-blocco comunista ha rappresentato un compito molto arduo per l’UE a causa dell’impianto statale, di diritto e civile di questi paesi che ancora molto doveva al passato da “Repubbliche Popolari”. Sicuramente quest’operazione ha ingrandito l’UE facendola diventare un soggetto internazionale più importante ma al contempo più eterogeneo. Inoltre, la diversificazione è penetrata in un processo decisionale, quello europeo, ancora caratterizzato dalla forte politica consensuale, con il risultato di paralizzare l’UE.
In secondo luogo risulta necessario sottolineare la progressiva mancanza di leadership all’interno dell’Unione. Ebbene sì: per quanto l’UE pretenda di essere una comunità aperta e democratica, una potenza egemone è necessaria per la sua sopravvivenza e stabilità. In particolare, servirebbero uno o più Stati che nei momenti di difficoltà alzino la propria voce, facciano pressione sugli organi europei dettando una chiara linea e rappresentando una guida per gli altri membri. Agli inizi della costruzione europea questo ruolo era stato preso dalla Francia, poi si è trasformato in una cooperazione franco-tedesca per passare alla sola Berlino. Tuttavia la Germania viene considerata una potenza semi-egemone in quanto una serie di fattori, fra cui il suo sistema politico, la sua economia e la sua volontà, hanno fatto in modo che essa risultasse sempre un “egemone zoppo”. Insomma, troppo grande e potente per essere solo uno Stato tra gli altri ma non grande e volenterosa abbastanza per giocare un ruolo regionale pienamente egemonico. Nonostante ciò, la Germania è lo Stato che, ad oggi, può risultare il più vicino a questa posizione anche se difficoltà economiche e politiche, quali il penultimo posto nelle previsioni di crescita economica nell’UE (seconda solo all’Italia) e la crescita del partito euroscettico AfD, stiano ulteriormente minando il suo ruolo.
Abbiamo parlato delle debolezze ma ora chiediamoci: quali sono le soluzioni possibili? Per quanto riguarda l’aumento della diversificazione europea, la risposta può essere trovata nella famosa “Europa a due velocità”: un determinato gruppo di membri decide volontariamente di procedere a una maggiore integrazione in determinati settori rispetto agli altri, seguendo l’articolo 20 del Trattato sull’Unione Europea. Quest’ultimo permette infatti agli Stati membri di “instaurare tra loro una cooperazione rafforzata nel quadro delle competenze non esclusive dell'Unione”. Invece, per ciò che concerne il problema della potenza egemonica, nel suo libro “European disintegration?” Douglas Weber propone tre possibili alternative: un passo più deciso verso il federalismo, il che risulta ad oggi poco probabile; una nuova lega anseatica (comprendente Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia, Danimarca, Finlandia e le tre Repubbliche Baltiche), ma nella quale il sud dell’Europa sarebbe poco rappresentato; e una rinnovata cooperazione franco-tedesca che appare la più probabile ma che escluderebbe la visione dei membri dell’Europa centro-orientale e non considererebbe le crescenti difficoltà interne dei due paesi.
Brexit: disintegrazione?
Il fenomeno Brexit, ovvero l’uscita del Regno Unito dall’UE a seguito del referendum del 2016, ha sicuramente segnato la storia dell’Unione. Prima dei britannici solo due Stati avevano abbandonato la famiglia europea, la Groenlandia e l’Algeria, dopo rispettivamente l’ampia autonomia dalla Danimarca e l’indipendenza dalla Francia. Tuttavia, il Regno Unito è stato l’unico Stato ad averla abbandonata dopo esserci entrato volontariamente nel 1973. È quindi l’inizio della fine per la nostra Unione? Non così in fretta: la risposta non è così semplice.
Da un lato si può dire che la Brexit sia un fenomeno di disintegrazione per due importanti ragioni. La si può definire innanzitutto disintegrazione orizzontale, intendendo il passaggio da 28 a 27 Stati membri. Chiaramente questo rappresenta una battuta d’arresto per un processo, quello di integrazione europea che, almeno per quanto riguarda l’espansione territoriale, non aveva mai fatto un passo indietro. Tutto ciò è dimostrato da un fatto marginale che però risulta essenziale in questo caso, ovvero il concepimento dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea. Esso sancisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione”. Ciò che risulta interessante è che l’articolo in questione è stato introdotto per la prima volta nel 2009, ovvero con il Trattato di Lisbona. Questo per far capire come l’abbandono dell’UE da parte di uno Stato non fosse neanche concepibile fino a quel momento, e quindi non codificato a livello giuridico. In secondo luogo, Brexit rappresenta un fenomeno di disintegrazione economica, perché l’UE perde un “contributore netto”, ovvero uno Stato che impegnava più risorse economiche nel bilancio europeo di quante ne ricevesse indietro. Infine, l’uscita del Regno Unito rappresenta una disintegrazione simbolico-politica in quanto si perde una voce importante nella comunità internazionale, diminuendo il peso diplomatico dell’UE, e una potenza vincitrice della 2° guerra mondiale con un arsenale atomico proprio.
Dall’altro lato, la Brexit non rappresenta una disintegrazione ma anzi un rafforzamento dell’Unione per diversi motivi. Il primo è che il Regno Unito rappresentava un’eccezione nel contesto europeo: erano state fatte ai britannici numerose concessioni in materia di accordi per cui essi non facevano parte, per esempio, dell’area Schengen e non avevano mai adottato la moneta comune. Inoltre, già al momento del referendum il governo di Londra non godeva di particolari simpatie tra i corrispettivi europei: pertanto, quando Cameron cercò di rinegoziare la propria partecipazione all’Unione Europea in vista del referendum, tra l’altro limitando la possibilità di movimento tra gli Stati dell’UE, dovette affrontare una forte opposizione. Una fra tutte, quella della cancelliera tedesca Angela Merkel, che preferì non agire come potenza egemone per salvare il Regno Unito, poiché prediligeva un’Europa più unita e ridotta piuttosto che un’Unione più ampia ma meno coesa. In secondo luogo, il Regno Unito è sempre stato un Paese semi-distaccato dall’Unione. Sin dall’adesione nel 1973, il processo ha presentato difficoltà; nel 1975 c’era già stato un primo referendum sull’appartenenza alla comunità europea. negli anni ’80 arrivò al potere Margaret Thatcher, un primo ministro euroscettico e spesso in contrasto con gli altri membri, infine il nuovo referendum nel 2016, quest’ultimo spinto da motivazioni politiche più che sostanziali, ovvero il declino del partito conservatore a favore dell’euroscettico UKIP guidato da Nigel Farage. Questo elemento sommato alla situazione di debolezza dell’UE, uscita difficoltosamente dalla crisi del debito sovrano europeo del 2010, hanno portato i cittadini britannici a votare per l’uscita del Regno Unito dall’UE.
Come visto in queste poche righe, quindi, la risposta al fatto che la Brexit sia o no un elemento di disgregazione è piuttosto complessa.
Per l’Unione Europea si prospettano tempi difficili, in un clima di crescenti difficoltà sia economiche che politiche: basti pensare alla crisi del debito sovrano europeo, quella ucraina del 2014, quella di Schengen del 2015, la Brexit del 2016 e oggi l’emergenza Covid-19. Se da una parte la disintegrazione dell’Unione Europea resta un incubo ricorrente per gli europeisti, i partiti e gli Stati più euroscettici rappresentano ancora una minoranza all’interno della comunità: tuttavia, il loro consenso cresce in maniera esponenziale e costante.
È questo a rappresentare la più seria minaccia per l’Unione Europea.