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Di cosa è fatta la tecnologia?
Politica internazionale dei componenti tecnologici essenziali

DI MARIANO VARESANO

25/02/2024

Parole come “cloud”, “etere” o “cyberspazio” danno l’impressione che le nuove tecnologie prendano vita in uno spazio astratto, immateriale, etereo. Al contrario, ogni dispositivo tecnologico, dallo schermo su cui state leggendo questo articolo a un sistema di difesa antiaerea, funziona grazie a componenti e infrastrutture materiali. Per la loro importanza, queste diventano i loci di cooperazione e (più spesso) competizione politica internazionale. Vediamone alcuni esempi.

Da circa trent’anni le società umane in gran parte del mondo hanno cominciato progressivamente a vivere in un ambiente ibrido, a cavallo tra la vita materiale offline e la vita digitale online. Questa dicotomia è però illusoria: ciò che avviene in rete ha conseguenze  materiali nel mondo che ci circonda, e a sua volta il mondo fisico determina la forma delle nostre tecnologie digitali. Se, secondo una celebre definizione, la politica consiste nello stabilire “chi ottiene cosa, quando e come”, allora anche lo sviluppo della tecnologia e l’accesso alle relative risorse saranno al centro di dinamiche di cooperazione e competizione politica globale.

Questo articolo presenta una panoramica generale di alcune delle principali questioni concernenti la componente materiale delle nuove tecnologie. Con un certo vezzo poetico, si potrebbe dire che questa componente è dislocata tra terra (terre rare, semiconduttori e datacenter), mare (cavi sottomarini) e aria (satelliti). I prossimi paragrafi saranno dedicati a ciascuna di queste componenti e saranno seguiti da una conclusione in cui individuerò tre trend comuni nell’attuale politica internazionale dei materiali per la tecnologia. Prima, però, una doverosa premessa: per ragioni di spazio, saranno trattate solo le questioni diplomatiche e di “high politics”, tralasciando i pur importantissimi problemi legati allo sfruttamento del lavoro e all’allargamento del divario tra “Nord” e “Sud” globale. È bene ricordare che, per la maggior parte della popolazione mondiale, “produrre tecnologia” non assomiglia a una partita a scacchi tra grandi potenze e aziende multinazionali, bensì a estenuanti turni in miniera o alla vita estremamente precaria del micro-work.


Terre rare

Le terre rare sono diciassette elementi metallici della tavola periodica che hanno proprietà essenziali per la costruzione di numerosi strumenti tecnologici. Senza questi materiali non disporremmo di una vasta gamma di tecnologie, dai TV a schermo piatto alle auto elettriche ai missili da crociera. A dispetto del loro nome, le terre rare non sono metalli scarsi: sono disponibili in grande quantità sul pianeta Terra, ma sono poco concentrati, e ciò rende la loro estrazione difficile, costosa e inquinante.

Il principale problema politico del settore delle terre rare deriva dalla dominanza quasi totale della Cina, che a partire dalla fine degli anni ’90 detiene una quota di mercato tra l’85 e il 95 per cento. La dipendenza dalla Cina per l’approvvigionamento di materiali così importanti costituisce un punto di preoccupazione per i Paesi occidentali, che temono che le terre rare possano essere usate come strumento di ricatto per il raggiungimento di fini politici. In effetti, c’è un precedente: nel 2010, nel mezzo di un’intensificazione delle tensioni attorno alle Senkaku/Diaoyu (un arcipelago oggetto di contese territoriali tra Cina, Giappone e Taiwan), Pechino ha minacciato di tagliare le esportazioni di terre rare verso il Giappone. Tuttavia, è molto probabile che l’interesse cinese nel mantenimento della sua posizione dominante in questo mercato dipenda dall’aumento della domanda interna a seguito dello sviluppo tecnologico del Paese, più che dalla volontà di avere uno strumento di ricatto verso l’esterno.

In ogni caso, gli sforzi verso una maggiore diversificazione delle catene di approvvigionamento delle terre rare devono fronteggiare almeno tre ostacoli. In primo luogo, mentre tutti vorrebbero più fonti di approvvigionamento di terre rare, nessuno vuole costruirle “nel proprio giardino”, a causa delle esternalità negative prodotte, come l’inquinamento. In secondo luogo, ogni impresa che voglia investire nel settore deve fronteggiare la feroce concorrenza di imprese cinesi già stabilite e dominanti. In terzo luogo, l’estrazione di terre rare è molto costosa e richiede notevoli investimenti iniziali.


Chip

Pensate a un dispositivo elettronico. A qualunque cosa abbiate pensato, è molto probabile che funzioni grazie a uno o più microchip. Si tratta di componenti elettronici formati da milioni di transistor (minuscoli “interruttori”, diciamo) che permettono il funzionamento di quasi tutto ciò che associamo alla parola “tecnologia”. I chip più “politicamente rilevanti” sono quelli di ultima generazione, che di solito sono anche i più piccoli e, dunque, i più complicati da costruire. Per dare un’idea: i chip più recenti sono composti da transistor la cui grandezza è espressa in nanometri, che è anche l’ordine di grandezza dei virioni del coronavirus.  L’estrema sofisticazione richiesta per produrre i chip più avanzati fa sì che le aziende in grado di produrli si contino sulle dita di una mano: si tratta della coreana Samsung, dell’americana Intel e della taiwanese TSMC. A queste si aggiunge l’azienda olandese ASML, che non produce chip avanzati, bensì i macchinari necessari alla loro produzione.

Se fino agli anni ’90 la storia del progresso dei chip corrispondeva sostanzialmente alla storia di Intel (ampiamente supportata dal governo USA per assicurare un vantaggio tecnologico durante la Guerra Fredda), oggi gli Stati Uniti non sono più al centro dell’innovazione del settore. Questo solleva due problemi politici di grande portata per Washington: 1. Come garantire che la Cina non raggiunga il livello tecnologico degli Stati Uniti, come invece previsto dal piano Made in China 2025? 2. Come assicurarsi che gli alleati (soprattutto i Paesi che ospitano le grandi aziende menzionate) si impegnino nella stessa direzione? Il primo problema è complicato perché, nonostante le pesanti misure restrittive adottate dal governo Biden per impedire l’esportazione di tecnologie avanzate verso la Cina, Pechino sembra fare progressi nello sviluppo di chip. Il secondo problema è complicato perché le aziende in questione guadagnano molto dall’esportazione nel mercato cinese, e Washington non sembra per ora offrire leve sufficienti per convincerle a rinunciarvi.


Cavi sottomarini

Più del 95 per cento dei dati che circolano in rete, incluso l’articolo che state leggendo, viene trasmesso attraverso milioni di chilometri di cavi in fibra ottica che corrono lungo i fondali oceanici e marini. Questi cavi rappresentano una delle infrastrutture più importanti della nostra era, eppure la loro posizione li rende poco visibili, anche agli occhi delle regolazioni internazionali: si parla di governance invisibility” o “sea blindness”, per riferirsi al fatto che non esiste nessun quadro legale internazionale che ne regoli proprietà e funzionamento.

Il primo problema relativo ai cavi sottomarini è la loro sicurezza: poiché trasmettono dati fondamentali al funzionamento della nostra società, potrebbero essere un bersaglio attraente per gruppi terroristici, criminali o Stati. Le recenti tensioni nel Mar Rosso, ad esempio, hanno sollevato l’allarme che questi cavi possano essere i prossimi bersagli degli Houthi.

Il secondo problema riguarda la loro proprietà. Al momento attuale questa infrastruttura è gestita da un mix di aziende private e Stati, ma una recente tendenza vede l’ascesa dei cosiddetti hyperscalers, cioè giganti tecnologici come Alphabet (cioè Google), Amazon Web Services e Meta, che vi stanno investendo massicciamente per assicurarsene il controllo. La quota di cavi in fibra ottica posseduta da queste aziende è passata, negli ultimi 10 anni, dal 10 al 66 per cento. Come vedremo anche nel caso dei satelliti, la concentrazione nelle mani di poche aziende private di infrastrutture critiche per la sicurezza e il funzionamento della società è problematica per aspetti etici, di governance e di responsabilità politica.


Satelliti

Se vi ha stupito l’enorme quota di dati che passano attraverso i cavi sottomarini, vi starete forse chiedendo come viene trasmessa la restante parte. Ecco, molta di essa prende la forma di segnale inviato a un satellite in orbita attorno alla Terra e ritrasmesso in un’altra parte del pianeta. L’importanza dei satelliti nel nostro mondo, però, è tutt’altro che limitata alla connettività attraverso internet: gran parte delle tecnologie utilizzate quotidianamente sia dai singoli utenti che dagli Stati coinvolge in qualche modo i satelliti. La più diffusa di queste è probabilmente il GPS, ma i satelliti sono utili anche a molte altre funzioni, come il monitoraggio del rispetto dei trattati per il controllo degli armamenti (attraverso le immagini satellitari) o per il rispetto dell’ambiente (attraverso dei sensori).

Le questioni sollevate dal controllo dell’orbita terrestre attraverso i satelliti sono moltissime: mi limiterò qui ad evidenziarne due. La prima riguarda la difesa: i satelliti costituiscono allo stesso tempo un asset fondamentale per le comunicazioni in tempo di pace e di guerra ma anche un “fat juicy target, cioè un bersaglio grosso e tutto sommato semplice da colpire se si dispone dei giusti sistemi anti-satellite. Per sopperire a questo problema, gli Stati Uniti stanno cominciando a sviluppare enormi “sciami” di satelliti molto piccoli e poco costosi, da lanciare subito o da tenere come riserva in caso di attacco.

La seconda questione riguarda la proprietà dei satelliti. Questa questione riguarda sia attori politici tradizionali come Stati e organizzazioni internazionali, sia grandi aziende private. Da un lato, una maggiore sensibilità all’importanza dei satelliti ha portato sia la Cina che l’Unione Europea a sviluppare sistemi satellitari autonomi e indipendenti dal GPS americano, rispettivamente chiamati BeiDou e Galileo. Dall’altro lato, è ormai una tendenza consolidata del settore spaziale l’emergenza di attori privati che lanciano satelliti o “prendono in appalto” la gestione di lanci spaziali di agenzie governative come la NASA. Il riferimento è naturalmente a SpaceX, l’azienda di Elon Musk che opera nel settore spaziale. SpaceX ha da tempo lanciato il programma Starlink, con l’obiettivo di costruire una consistente flotta di piccoli satelliti che garantiscano una copertura internet planetaria. Nonostante il nobile intento, Starlink è stato al centro di alcuni scandali che svelano la natura problematica del controllo di asset strategici da parte di aziende private: dopo aver garantito la copertura internet alle truppe ucraine durante la guerra contro la Russia, Musk ha arbitrariamente deciso di sospenderla durante la pianificazione di un attacco alla flotta russa che, secondo l’imprenditore, avrebbe provocato un’escalation.


Datacenter

Dopo aver seguito il percorso di enormi masse di dati tra le profondità oceaniche e la vastità dello spazio, torniamo a terra per giungere ai luoghi in cui questi dati vengono gestiti e conservati. Questi spazi sono chiamati datacenter. Ci sono più di 10.000 datacenter sparsi per il mondo, di diverse dimensioni e prevedibilmente concentrati soprattutto in Europa e negli Stati Uniti.

Come è intuibile, si tratta di strutture estremamente energivore, e questo costituisce il primo problema politico: c’è sempre più insofferenza verso la costruzione di datacenter da parte di chi ne vive nei pressi. Vi sono stati ad esempio casi di proteste contro la costruzione di nuovi centri nei Paesi Bassi da parte di aziende come Meta e Microsoft – anche in questo caso, poche “Big Tech” dominano il settore.

Un altro problema riguarda poi il controllo dei dati contenuti in questi datacenter. Il caso che ha avuto maggiore risonanza è stato quello di TikTok: sia l’amministrazione Trump che Biden hanno minacciato di vietare l’app negli Stati Uniti denunciando una gestione poco trasparente dei dati degli utenti americani. La soluzione trovata – e il motivo per cui l’app è ancora disponibile nel Paese – è che ByteDance (l’azienda che gestisce TikTok) ha accettato di archiviare e gestire i dati raccolti dalla piattaforma riguardanti gli utenti americani nei datacenter di Oracle, azienda di proprietà statunitense. Il minacciato ban di TikTok può essere interpretato sia come una leva politica usata da Washington per screditare una compagnia cinese, sia come una sincera preoccupazione relativa alla sicurezza nazionale: in ogni caso, la soluzione non è stata virtuale, bensì ha riguardato queste cruciali infrastrutture fisiche.


Tre trend

La panoramica appena illustrata evidenzia almeno tre tendenze generali nella politica internazionale dei componenti tecnologici: 1. La sempre maggiore competizione tra Stati Uniti e Cina, 2. Le tensioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati nell’assicurare una convergenza di interessi nella competizione con la Cina, 3. L’ascesa di aziende private di dimensioni titaniche nelle industrie tecnologiche più sensibili e strategiche, fino al raggiungimento di posizioni di fatto oligopolistiche. Gli ultimi due punti ribadiscono alcuni principi generali dei rapporti tra politica ed economia. Da una parte, anche un legame politico forte come un’alleanza può subire frizioni quando l’interesse politico si scontra con quello economico – come nel caso delle grandi aziende di chip spinte da Washington a privarsi dell’enorme mercato cinese. Dall’altra parte, è da rigettare sia la visione per cui gli Stati agiscono solo seguendo gli interessi della propria industria, sia quella per cui le aziende non sono altro che strumenti guidati dall’interesse nazionale. Piuttosto, gli Stati e le aziende sono attori con interessi talvolta convergenti e talvolta divergenti, che inter-agiscono nel complesso spazio globale ibrido offline e online, allo stesso tempo plasmando e venendo plasmati dallo sviluppo tecnologico.

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