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Pechino D'Ampezzo. E la neve?

DI MICHELE DANESI

17 marzo 2022

Prima che ci ritrovassimo una guerra davanti alla porta di casa a
risvegliare in noi il ricordo che la diplomazia da sola non è la regola,
eravamo tutti impegnati ad indignarci per cose che ora sembrano più
futili. Come la mancanza di neve naturale alle Olimpiadi invernali. Post
su post dall’inizio delle competizioni hanno portato all’attenzione
dell’opinione pubblica una domanda che gli appassionati hanno in
mente dalla nomina della capitale cinese per quest’edizione dei Giochi.
Ma come mai proprio Pechino, se è vero che lì la neve non c’è?

I concorrenti in gara. Alla lunga fila di candidature per ospitare i Giochi invernali 2022 si sono presentate nel 2013 Stoccolma, Cracovia, Oslo, Almaty, Lviv e Pechino. Come in ogni concorso che si rispetti ci sono le esperte del settore che nella nostra mente non possono che essere favorite (o almeno nella mia lo sono state, come se solo per il fatto che si  trovassero in nord Europa o avessero una forte tradizione di sport invernali dovessero essere i Paesi scandinavi a fare facessero da host). Poi c’è un pezzo grosso che ha già vinto in altre categorie (Giochi dell’Asia, Universiadi e via via crescendo fino alle Olimpiadi estive del 2008). Infine, c’è chi si presenta sperando nel grande botto in questa carriera, che tipicamente porta tante copertine, interesse mediatico, tutti che vogliono fare foto con te e, ovviamente, soldi. Grandi giri di soldi. 


La sfilata. Come fanno notare Xin e Kunzmann [Winter Olympics 2022 in Beijing: a must be success story, 2020], due aspetti sono diventati sempre più rilevanti per quanto riguarda sia la presentazione delle candidature da parte delle città, sia la loro accettazione e valutazione da parte del Comitato Olimpico Internazionale (IOC). Se le aspiranti host puntano a modernizzare l’infrastruttura, i trasporti, gli impianti sportivi e a rilanciare lo sviluppo economico, l’IOC necessita a sua volta di criteri di affidabilità finanziaria sempre maggiori. In combinazione con una crescente attenzione verso le opinioni pubbliche locali (che hanno già tarpato le ali anche a progetti per le Olimpiadi estive, come è successo ad Amburgo a metà del decennio scorso). Lo sfondo di tutto questo è la trasformazione, ormai ultimata da tempo, delle Olimpiadi: da evento sportivo a evento mediatico vero e proprio. A fronte di tutto ciò, sono bastati i passaggi obbligati della prima fase di application delle città – un questionario e un report degli stakeholder locali (e.g. le federazioni sportive, le associazioni degli atleti) – per far ritirare dalla corsa Lviv, Stoccolma e Cracovia. Oslo si è invece ritirata durante la seconda fase di candidatura e valutazione da parte dell’IOC, lasciando Pechino e la kazaka Almaty al testa a testa finale. Niente più città d’Europa dunque , teatro delle coppe del mondo di sci alpino; niente più capitali scandinave, orgogliose patrie di campioni di sport invernali. Solo due venues con un problema non indifferente: non piove abbastanza per avere neve in inverno. 


Un primato non troppo nascosto. Lo studio più citato negli ultimi mesi [Slippery Slopes. How Climate Change Is Threatening The Winter Olympics, University of Loughsborough, 2022] mette bene in chiaro le sfide di un evento come le Olimpiadi invernali: si devono raggiungere determinati standard per quanto riguarda la qualità dell’aria, il livello di precipitazioni e la temperatura media. È quantomeno ironico pensare che l’IOC avesse sostenibilità come parola chiave della nuova agenda strategica mentre si decideva fra due città che, in condizioni normali, non possiedono i requisiti ambientali minimi per ospitare i Giochi. Se Almaty non era soddisfacente dal punto di vista della qualità dell’aria, Pechino non possedeva nessuno degli standard sopra elencati. Come siamo arrivati allora a Beijing2022? 


Il titolone da scalpore mediatico è stato che tutta la neve di Pechino 2022 sarebbe stata al 100% artificiale. Ciò non significa che è stata scelta una città  dove non abbia mai nevicato (una bella fioccata si abbatté sulla capitale non molti giorni pochi giorni prima che il Covid-19 ne varcasse le mura, posso testimoniare), ma che non fosse possibile fare il minimo affidamento sulla neve naturale: nella zona infatti, la temperatura media non rimane a lungo sufficientemente fredda da ghiacciare e le precipitazioni sono esigue. Quasi cinquantamila galloni d’acqua da trasformare in 1.2 milioni di metri cubi di neve non è una passeggiata per una città prettamente arida in inverno, tanto che i condotti per il trasporto dell’acqua sono stati creati per favorire gli approvvigionamenti dal sud del Paese, dalle cui riserve si è andati ad attingere per sopperire alla scarsità. Eppure, per quanto sia la prima volta che ci si indigna in massa a riguardo, c’è poco di nuovo. La neve è sparata sulle piste olimpiche dai tempi di Lake Placid 1980, in quantità sempre maggiore. È  vero anche che non si è mai ricorsi interamente a neve artificiale, ma la versione dell’IOC , ovvero che questa sia usata solo come supporto, scricchiola quando si va se andiamo a vedere che la percentuale che ne è stata usata a Sochi 2014 e Pyeongchang 2018 supera l’80%. In pratica, eravamo già ad un punto tale per cui la neve naturale faceva da supporto a quella creata ad hoc, condizione normale nella maggior parte delle stazioni sciistiche anche nel cuore dell in Europa. La situazione è inoltre destinata a peggiorare. L’impatto del cambiamento climatico renderà sempre più necessario ricorrere a questo tipo di queste pratiche, andando ad intensificare la condizione di rischio che vivono la di flora e la fauna locali, le quali risentono non solo della composizione chimica della neve artificiale. Essa infatti la quale si scioglie più lentamente ed è spesso mischiata ad altri agenti chimici quali pesticidi, per alterarne la qualità e renderla più dura o più morbida, a seconda delle esigenze . Inoltre, flora e fauna risentono anche del – ma anche del rumore notturno delle macchine della bolzanina TechnoAlpin, la cui infrastruttura installata sia in superficie che nel sottosuolo e rimarrà in loco anche dopo il termine dei Giochi, quando le aree saranno privatizzate, vendute e mantenute come impianti sciistici per la stagione invernale. 


Lo stacchetto finale. A far trionfare Pechino su Almaty durante l’assemblea dell’IOC tenutasi a Kuala Lumpur nel 2015 – con il punteggio da finale di fioretto a squadre di 44-40 – è stato il piano carbon neutral presentato dalla Cina. Il Kazakhstan infatti si è a sua volta si era presentato con un grosso problema di gestione delle aree naturali (più di una sede delle gare sarebbe stata situata nel mezzo di un Parco Nazionale protetto) e un piano molto vago per migliorare la qualità dell’aria. Pechino invece si è presentata con una lista di mosse per mantenere al minimo i livelli di carbone durante i processi di costruzione degli impianti, svolgimento delle competizioni, trasporto, smantellamento e gestione delle scorie e riciclo di parte dell’acqua. Tutto bello. Tanto bello quanto difficile da misurare. Come è stato portato avanti questo piano? Quali livelli sono stati prefissati? È stata stilata una priorità nell’implementazione di queste misure? Non lo sappiamo, ma per strano che sembri, la colpa più grande di questi nostri tre punti interrogativi di fila ricade sul Comitato Olimpico, che nella sua lotta alla sostenibilità non ha ancora scritto un documento chiaro. 


Vi lascio con una citazione diretta dal Report della Commissione IOC valutatrice, sulla cui base si è votato per la località ospitante dei Giochi Olimpici invernali del 2022. Rabbrividiamo insieme davanti a quanta strada ancora manca da fare di fronte al cambiamento climatico. 


Ski resort development in this area [Yanqing] would therefore require substantial ecological studies and mitigation measures to limit environmental impact. There is no alternative for Alpine skiing speed events (downhill) in the area. In contrast, the natural environment around Zhangjiakou has been heavily exploited through deforestation, mining and agriculture, so Games-related construction would probably have limited direct ecological impact in this zone.

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