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Qatar: un brand di successo

DI PAOLA MIGLIORISI

09/03/2023

Quando una nazione vuole cercare di emergere a livello internazionale o vuole dare una nuova immagine che tagli con quella passata, fa in modo di crearne un’altra piena di nuovi valori che lascino tracce ben visibili. È il caso di un piccolo Stato del mondo che ha avuto la nostra particolare attenzione nei mesi scorsi e che spera di riuscire ad ottenerla, sempre più, con il passare del tempo: il Qatar.

Qatar come brand di sé stesso

Le nazioni possono davvero funzionare come dei brand, ovvero un insieme di fattori che garantiscono una determinata qualità, e che è immediatamente riconoscibile all’esterno grazie al marchio. E, in questo caso, una percezione positiva di quello Stato da parte del mondo è un enorme vantaggio per i soggetti diplomatici, in quanto potente strumento di Soft Power.

Il Nation Branding è il tentativo di sfruttare la percezione di un luogo da parte di un pubblico straniero in termini economici o politici.

Fu pensato da Simon Anholt, un analista e consulente politico britannico che negli anni Novanta coniò il termine. L'obiettivo era racchiudere “l’identità competitiva” degli stati, cioè il miglioramento dell’immagine dello Stato attraverso dei cambiamenti concreti, che non si limitassero ad una campagna pubblicitaria solamente comunicativa di tipo aziendale.

Il brand è quindi disseminato nelle menti dei pubblici globali: la sua forza è la percezione che il pubblico ha di esso, collegandolo alla sua capacità di mantenere nel tempo la qualità che lo ha portato ad essere ammirato a quel livello. Questo fa in modo che il marchio rispecchi un simbolo di garanzia della qualità. Solitamente i processi di Nation Branding vengono intrapresi all’interno di stati che hanno già una propria identità nazionale interna e cercano di crearne una esterna da poter vendere.

Interessante è analizzare il caso del Qatar: un paese molto giovane e molto piccolo che nei mesi scorsi è riuscito ad ottenere una importante risonanza per il fatto di aver ospitato i mondiali di calcio maschili del 2022.

È stata una mossa politica coerente con le decisioni di Nation Branding che lo Stato arabo porta avanti da parecchi anni. La differenza con molte altre politiche simili a quella qatariota in giro per il mondo, è il fatto che a fianco al Nation Branding, il Qatar sta costruendo ancora le basi per il Nation Building: il processo di creazione di una propria identità nazionale che riesca a combinare valori e tradizioni come identificativi in cui la popolazione può riconoscersi. Il Qatar non è uno Stato che nasce da un’esperienza unificante di comunità nazionale, come può esserlo un conflitto. In questo senso è stata particolarmente utile la crisi diplomatica con gli altri paesi arabi vicini degli anni 2017 - 2021, in quanto ha gettato le basi per un crescente orgoglio qatariota che attribuisce il simbolo della resistenza popolare alla figura dell’Emiro Tamin bin Hamad Al Thani. Questa crisi è entrata a far parte del patrimonio storico e culturale del Qatar, all’interno di un processo di costruzione identitaria che è arrivato dopo quello di Nation Branding.

Prima della nazione, infatti, il Qatar si identificava come un vero e proprio brand da commercializzare attraverso le relazioni economiche, dove le aspirazioni globali e la capacità di investire e cooperare con il resto del mondo hanno mostrato il piccolo Stato sul palcoscenico mondiale. La sola brandizzazione non era comunque sufficiente a creare un senso di appartenenza comunitario, di cui il Qatar aveva bisogno per potersi vantare come una nazione solida all’interno delle relazioni internazionali. Anche perché, come avverte Simon Anholt, non rispettare all’interno del paese l’immagine comunicata all'esterno è un grosso problema per l’opinione internazionale.

Ad oggi, possiamo dire che il Qatar sta perseguendo parallelamente entrambe le politiche di Nation Building e Nation Branding, in cui la figura dell’Emiro è fondamentale nel rafforzare il senso di nazionalismo che si indentifica con il “royalism”, nel senso in cui si vuole costruire uno stato a misura monarchica che vede l’Emiro come immagine della nazione stessa.

Questi elementi portano il Qatar a identificarsi in un marchio, non solo dalla prospettiva esterna, ma anche a quella interna, attraverso politiche che sponsorizzano un’identità nazionale che fa dello stato il brand di sé stesso.



Il ruolo dei mondiali

Il primo componente della politica di brandizzazione qatariota è l’organizzazione di importanti eventi internazionali con forte risonanza mediatica e in cui il Qatar possa vendere la sua immagine, dunque quale migliore occasione dei mondiali di calcio maschili?

Il Qatar si aggiudica l’assegnazione dell’evento nel 2010 preparandosi a strumentalizzare l’attenzione internazionale all’interno di entrambe le politiche: da una parte accrescere il senso di coesione nazionale attraverso il tifo per la propria squadra, dall’altra conferire una strategica visibilità alla propria nazione. I mondiali sono stati il perfetto strumento di Soft Power che ha permesso di pubblicizzare il proprio ruolo all’interno delle relazioni con il resto del mondo e di evidenziare l’intenzione reciproca di riavvicinarsi agli altri paesi arabi della penisola.

Accanto all’attenzione mediatica del mondiale, il Qatar ha incassato il duro colpo del cosiddetto “Qatargate”, un giro di corruzione che ha coinvolto 60 europarlamentari da parte di funzionari qatarioti e marocchini, al fine di sponsorizzare la propria immagine paese durante le discussioni di alcuni dossier all’interno delle istituzioni europee. Il tentativo era quello di allontanare la valanga di critiche che si sono abbattute sul paese riguardo la violazione dei diritti umani per la conduzione dei lavori relativi ai mondiali.

È stato il più grosso scandalo di corruzione nella storia dell’Unione Europea, che le ha fatto perdere l’immagine di impermeabilità nei confronti di attività criminali. Il focus si è infatti concentrato sul malfunzionamento delle istituzioni europee più che sul Qatar, da cui l’opinione pubblica internazionale, e in particolare quella occidentale, si poteva invece aspettare un atteggiamento di questo tipo. La pressione mediatica ha evidenziato il forte shock che ha investito le figure dell’Unione, lasciando poco spazio per un accanimento nei confronti del piccolo paese arabo.



Il risultato delle politiche di Doha

Possiamo sicuramente affermare che la coppa del mondo è stata il simbolo della politica che Doha porta avanti da diversi anni ed è stato il momento in cui il paese ha ricevuto i riflettori che cercava da tempo, nel bene e nel male. Tutta la visibilità che ha ricevuto, alla fine, ha compensato le critiche che ci sono state sulla sua assegnazione per il mondiale rispetto al tema dei diritti umani, considerando anche che queste sono state scatenate da un punto di vista eurocentrico, più che globale. Per cui occorre fare una distinzione geografica rispetto alla percezione dell'opinione internazionale, in quanto si limita più che altro ad una critica di tipo occidentale.

Relativamente alla politica di immagine, possiamo dire che ospitare il mondiale è stato una vittoria, seppur controversa, soprattutto da un punto di vista geopolitico. Il Qatar è stato il primo tra i paesi della penisola araba a sostenere un evento di tale portata e ha anche accentuato la ripresa delle relazioni diplomatiche che erano state interrotte fino al 2021. Tanto da far diventare iconiche le immagini in cui il re saudita e l’Emiro Al Thani indossano le sciarpe con i colori delle due bandiere e Lionel Messi viene vestito con il Bisht, come coronamento del Soft Power di Doha.

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