L’effetto domino della crisi climatica in Africa
DI ALICE CARNEVALI
10/05/2020
I cambiamenti climatici globali colpiscono l’Africa più degli altri continenti. Possiamo ancora fare qualcosa?
La drammatica epidemia di Coronavirus non è l’unico evento ad aver messo in ginocchio il continente africano nel corso del 2020. Sciami di locuste hanno invaso il Corno d’Africa arrecando danni ai raccolti stagionali, la desertificazione affligge la zona del Sahel, i conflitti tra agricoltori nigeriani si fanno sempre più violenti e la siccità costringe numerose persone ad abbandonare la propria casa .
Di fronte a fenomeni così devastanti è comune abbandonarsi ai luoghi comuni come “anno bisesto, anno funesto”; ma la triste verità è che le nostre abitudini sono più colpevoli del 366º giorno del 2020. Cavallette, epidemie e fame sono causate dal cambiamento climatico, un pericoloso fenomeno antropogenico derivante da attività quali l’utilizzo di combustibili fossili, la deforestazione e l’allevamento di bestiame.
L'Africa è il continente più colpito dai mutamenti ambientali: paradossalmente ed ingiustamente, perché è quello che contribuisce di meno alla loro creazione. Ma in che modo i cambiamenti climatici agiscono sui territori africani? Ed esistono soluzioni?
Agricoltura KO: un dramma economico e sociale
In Africa la temperatura si è alzata di 0,5 gradi negli ultimi 50 anni e questo ha avuto effetti tutt’altro che astratti sulla vita delle persone. Le locuste arrivate in Kenya a causa di anomalie meteorologiche hanno divorato le piantagioni di mais, fagioli e saggina, costringendo alla fame numerosi contadini e mettendo KO un’economia prettamente sorretta dall’agricola. Questa stessa dinamica si riproduce poi su scala continentale, in quanto il primo settore economico, oltre ad essere il più importante per l’Africa, risulta anche la prima vittima del cambiamento climatico.
Siccità, scarsità di piogge e perdita della biodiversità hanno un impatto devastante sull’agricoltura, la quale impiega oltre il 60% della popolazione africana e costituisce una risorsa inestimabile per numerose famiglie che basano su questa la loro alimentazione. Ad esempio, il grano cresce ottimamente a temperature comprese tra 15 e 20 gradi, un range superato dalla media annua dell’Africa subsahariana, dove risulta difficile coltivare questo frumento. Il calo della produzione è stimato del 30% nel 2030, con un conseguente aumento dei prezzi di vendita.
Una situazione drammaticamente attuale, che riduce alla fame numerosi cittadini africani, aumentando il malcontento nei confronti dei governi locali, fomentando tensioni e conflitti civili. Questa è la realtà del Niger e del Burkina Faso, dove lunghi periodi di siccità alternati a precipitazioni intense e deforestazioni hanno ridotto la superficie coltivabile, contesa nei conflitti tra contadini e pastori.
Come risollevare dunque l’agricoltura africana di fronte alla sfida del cambiamento climatico? La risposta non è semplice.
Il 95% delle colture del continente è pluviale, ma al momento numerose aree dell’Africa centro-occidentale e meridionale sono alle prese con la peggiore siccità da 35 anni a questa parte. Le risorse idriche scarseggiano, rendendo ardua la vita di tutti gli esseri viventi e l’esercizio delle attività economiche.
In Sudafrica, nel paese Graaf-Reinet non piove da 5 anni ed il bacino acquifero da cui dipendevano l’agricoltura e la vita degli abitanti è ora ridotto ad un lembo di terra tappezzato di scheletri di pesci. L’acqua proveniente da pozzi vicini non è sufficiente per le necessità dell’intera popolazione, la quale si ritrova abbandonata dall’amministrazione locale.
Oltre alla crisi sanitaria dovuta alla mancanza di risorse idriche, questo fenomeno si ripercuote sulla stabilità politica del continente alimentando conflitti tra coloro che sono costretti a condividere una risorsa tanto necessaria quanto scarsa. È il caso per esempio della Nigeria, dove le rappresaglie tra agricoltori e pastori per l’accesso all’acqua devastano le comunità locali.
I cambiamenti climatici, dunque, non devono essere interpretati semplicemente come un aumento delle temperature. In Africa, siccità, piogge violente, invasioni di insetti, carenze idriche hanno un impatto devastante su un tessuto economico e sociale in molti casi già fragile, portandolo all’esasperazione. Un effetto domino che travolge la vita di molte persone, lasciando loro poche soluzioni: migrare o lottare per la sopravvivenza.
Le migrazioni climatiche: una realtà più vicina di quanto immaginiamo
Tra i tanti tasselli che il cambiamento climatico colpisce con sempre maggiore violenza, uno riguarda il fenomeno migratorio. La mancanza di risorse primarie alla sopravvivenza ed i conflitti sono tra le principali cause che spingono numerose persone a lasciare la loro casa per cercare un futuro migliore altrove. Già nel 1990 il professore Myres dell’Università di Oxford ipotizzava che nel 2050 il numero di “migranti climatici” ammonterà a 200 milioni, di cui la maggior parte proverrà dai continenti di Asia e Africa. Una stima incerta, ma che mette in luce un fenomeno ampiamente sottovalutato, allora come oggi.
Lo stesso diritto internazionale ancora non prevede alcun meccanismo di protezione nei confronti delle persone che scappano da condizioni climatiche ostili. La Convenzione di Ginevra del 1951, anche nella sua interpretazione più recente, non consente ai migranti climatici di ottenere lo status di rifugiati. Una zona grigia del sistema internazionale, dovuta anche alle numerose difficoltà nel ricostruire in maniera chiara il caso specifico senza creare ambiguità.
Ciò nonostante, i migranti climatici esistono e sono una realtà più vicina di quanto immaginiamo. Secondo uno studio realizzato nel 2019 dal Centro Nazionale di Ricerca, il 90% degli ingressi sul territorio italiano da rotta mediterranea è dovuto alle variazioni climatiche nella fascia africana del Sahel, l’area più colpita dalla desertificazione e dai cambiamenti climatici. Proprio in quella zona, infatti, si concentrano i più alti livelli di fame, conflitti, movimenti terroristici e traffici illeciti, dinamiche che costringono molte persone a fuggire verso nord. 9 su 10 è dunque un dato fondamentale per parlare di fenomeno migratorio verso l’Italia, ma troppo spesso questo viene ignorato per lasciare spazio a discussioni propagandistiche prive di riflessione scientifica.
La migrazione per motivi climatici è dunque una delle possibili vie verso cui si dirige il domino climatico. Ma come evitare che lo spostamento forzato sia necessario? E come migliorare la situazione delle persone ancora più vulnerabili le quali non hanno nemmeno la possibilità di affrontare il viaggio?
La cooperazione internazionale: una soluzione?
Trovare delle soluzioni ad un problema così grande è sicuramente difficile, ma l’effetto domino ci può tornare in aiuto per semplificare il paradigma. Il primo tassello a cadere è l’equilibrio del nostro ecosistema, devastato dalla potenza dei cambiamenti climatici a cui soprattutto l’Africa è sottoposta. Risulta dunque necessario un impegno globale, efficace ed immediato verso la risoluzione della crisi ambientale. Le conferenze ONU sul clima si tengono a cadenza regolare, ma i successi paiono insufficienti. Inoltre, data l’emergenza Coronavirus, la questione clima pare passata in secondo piano; ad esempio, la conferenza ONU del 2020 prevista tra Glasgow e Milano è stata rinviata al prossimo anno, lasciando numerosi interrogativi sulle direzioni che i governi prenderanno alla fine dell’epidemia. Tra i rischi che il pianeta potrebbe affrontare nella fase di ripartenza vi potrebbero essere le misure prese a sostegno del settore petrolifero (data la caduta dei prezzi nel mercato del greggio) e l’aumento dell’utilizzo di trasporti privati a scapito di mezzi più ecosostenibili.
Ciò nonostante, l’inserimento della lotta al cambiamento climatico come tredicesimo obiettivo dell’Agenda 2030 sullo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite è sicuramente un grande incentivo per i progetti tematici rivolti ad aiutare la popolazione africana. Ad esempio, sono stati forniti dispositivi tecnologici a numerosi agricoltori della Zambia per prevenire l’arrivo del maltempo ed organizzare così il loro raccolto. Sulla stessa linea, l’Unione europea ha finanziato numerosi programmi rivolti a diminuire l’impatto del cambiamento climatico in Africa nel contesto dell’agenda Orizzonte 2020. MADFORWATER è uno di questi: diretto dall’ateneo di Bologna in collaborazione con altre università europee, mira a sfruttare al meglio le risorse idriche dei bacini d’acqua di Egitto, Tunisia e Marocco, tramite l’utilizzo di tecnologie sofisticate. Oltre ai programmi sopracitati, altri progetti sono finanziati da ONG ed associazioni locali che si occupano di intervenire laddove l’amministrazione non sia in grado di soddisfare le necessità della popolazione.
Insomma, per quanto l’attuale situazione sanitaria e le previsioni future non siano tra le più positive, è necessario continuare ad agire nella direzione di progetti virtuosi, promuovendo una collaborazione internazionale che non miri al profitto, ma a risollevare intere comunità distrutte da un fenomeno che loro non hanno causato. Una cooperazione che andrebbe dunque a vantaggio di tutti, anche degli stati più ricchi che che ad oggi investono eccessive energie in propaganda anti-immigrati, senza pensare a come risolvere il problema di partenza.
Attraverso una rete di consapevolezza, competenza e solidarietà, l’effetto domino del cambiamento climatico può essere ridotto e numerose vite possono essere salvate. Ma bisogna farlo in fretta.