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Rifiuti italiani in
Malesia: un caso di ingiustizia climatica

DI ALICE CARNEVALI

4/05/2020

Greenpeace scopre una rotta illegale di rifiuti italiani verso la Malesia. Le conseguenze sono disastrose e sollevano riflessioni sulla necessità di una giustizia climatica

“Our biosphere is being sacrificed so that rich people in countries like mine can live in luxury. It is the sufferings of the many which pay for the luxuries of the few”. Le parole pronunciate da Greta Thunberg alla COP24 di dicembre 2018 riassumono con schiettezza uno degli obiettivi più ambiziosi e necessari che la comunità internazionale deve perseguire in epoca antropogenica: la giustizia climatica.

Questo concetto mette in luce l’amplia dimensione in cui si inserisce la lotta al cambiamento climatico, che trascende la mera dimensione ambientale collegandosi con il sistema economico e la società. La giustizia climatica vuole mettere in relazione i diritti umani con lo sviluppo economico per raggiungere un modello che sia ecosostenibile ed equo, in una parola: giusto.

Tuttavia, le parole di Greta ci ricordano che questo traguardo è ancora lontano: i paesi più poveri sono quelli che subiscono maggiormente le conseguenze devastanti del cambiamento climatico e dell’inquinamento, nonostante siano i più “innocenti”.  In ritardo, ma speriamo non troppo, i Paesi “colpevoli” devono assumersi le responsabilità delegate da troppo tempo ad altri, con eccessiva indifferenza, causando una crisi che oggi sta sfuggendo dal controllo umano.

Tra queste, un emblematico esempio è rappresentato dall’esportazione di rifiuti di plastica verso l’Asia, un commercio che è diventato insostenibile, un problema enorme di cui si ignorano, o si nascondono, le conseguenze.

Occhio non vede cuore non duole

Ogni settimana mi stupisco della quantità di rifiuti accumulati da me e dalle mie coinquiline. Quattro studentesse attente alla questione ambientale, il cui bidone della plastica straborda così tanto da richiedere due persone per portarlo fuori, in attesa di essere svuotato dal servizio di raccolta differenziata porta a porta. Una sensazione che si presenta però solo il lunedì sera, perché quando martedì il bidone è vuoto mi sono già dimenticata dei rifiuti della settimana precedente, una sorta di “occhio non vede, cuore non duole”. Eppure, anche se io non li vedo più, questi continuano ad esistere, quelli più fortunati vivono una seconda vita rincarnandosi in un altro oggetto: ma gli altri che fine fanno?

In Europa, l’Italia è il primo paese per il recupero dei rifiuti tramite raccolta differenziata, al pari con la Germania. Un primato importante che però non è seguito dal numero sufficiente di impianti ed ecodesign per trasformare il materiale raccolto. Ad esempio, nel 2017 solamente il 40% della plastica è stato avviato al riciclo e, di questo, meno di due terzi è stato realmente trasformato in nuovi oggetti. La maggior parte della plastica è dunque destinata a termovalorizzatori, cementifici e discariche. Un problema che persiste: come negli altri Paesi occidentali, la quantità di rifiuti di plastica prodotti in Italia eccede le capacità nazionali di smaltimento, dunque la plastica viene esportata all’estero. Il rifiuto diventa in questo modo un prodotto trasportato verso i paesi in cui il suo trattamento è meno costoso, vale a dire quelli in cui vi sono poche norme ambientali. L’export di rifiuti è dunque nocivo per l’ambiente ed è registrato in negativo dalla bilancia commerciale del paese esportatore.

L’Italia è all’undicesimo posto della classifica mondiale di esportatori di rifiuti di plastica, la quale vede sul podio gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania. Ma verso dove sono diretti questi rifiuti?

La Malesia, nuova rotta dei rifiuti di plastica

La rotta occidentale dei rifiuti di plastica è stata modificata nel 2018, quando la Cina ha bloccato le importazioni per proteggere l’ambiente dai materiali di scarto contaminanti. Prima di questa legge, Pechino era il maggiore importatore di rifiuti di plastica dai paesi occidentali (nel 2016 ne accolse 7,3 milioni di tonnellate), dunque la sua decisione ha modificato drasticamente il commercio internazionale. L’Italia, ad esempio, è passata dall’esportare oltre 40% di cascami di plastica alla Cina nel 2017 ad esportarne solo l’8% nel 2018.

Ad oggi, l’Italia invia la maggior parte dei propri rifiuti di plastica in Austria, Germania e Spagna: ciò nonostante un terzo dell’export è rivolto a Paesi extra-europei come Turchia, Malesia e Vietnam. In particolare, il commercio con paesi al di fuori dei confini europei è vincolato da regolamenti comunitari precisi: l’Unione Europea stabilisce che i rifiuti di plastica possono essere esportati solamente verso Paesi i cui standard e trattamenti sono equivalenti a quelli europei in merito al rispetto dell’ambiente e della salute umana. Ma siamo sicuri che l’esportazione di plastica italiana verso Turchia, Malesia e Vietnam sia rispettosa dei nostri standard?

Le indagini di Greenpeace analizzano il caso malese dimostrando l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti di plastica provenienti dall’Italia. Nei primi 9 mesi del 2019, il 46% della plastica italiana spedita in Malesia è finita in aziende prive di autorizzazione, che quindi non hanno seguito le norme di trattamento e smaltimento europee, lasciando la plastica in discariche abusive. Sarebbero 68 le aziende autorizzate a importare e trattare i rifiuti italiani dal governo malese, ma a queste si affiancano trafficanti senza licenza, interessati ad arricchirsi con un business che vale 6 miliardi di euro. In questo modo, meno del 2,5% della plastica che arriva in Malesia dall’Italia è sottoposta a controlli e la maggior parte finisce in discariche nocive per la popolazione.

Ingiustizia climatica

Le indagini hanno dimostrato l’elevato e preoccupante livello di inquinamento causato dai rifiuti abbandonati illegalmente.  Nei campioni di plastica presenti nel suolo e nell’acqua sono state rilevate alte concentrazioni di metalli pesanti (mercurio e piombo) e la presenza di composti organici persistenti e cancerogeni. La situazione è critica e le conseguenze sono dannose per la salute umana degli abitanti malesiani vicini alle discariche. Il primario del Metro Hospital di Sungai Petani, Tneoh Shen Jen, afferma che “i pazienti con asma e problemi respiratori sono aumentati più del 20 o 30% rispetto allo scorso anno” e nonostante le proteste, le autorità malesi continuano ad ignorare la situazione.

Il caso descritto fa riflettere sul concetto di giustizia climatica e sulle parole pronunciate da Greta Thunberg. Semplificando, la Malesia si trova a pagare con danni ambientali e umani una situazione che ha come artefice l’Italia, un paese più ricco. Un concetto sintetico, che nasconde sfaccettature diverse e mette in luce i prossimi ostacoli da superare: ridurre il consumo di plastica, creare un percorso a 360° per il materiale riciclabile ed intensificare i controlli. Ma un altro problema che ci appare chiaramente distorto è quello relativo al funzionamento del nostro sistema economico-commerciale, incurante dell’ambiente e della salute umana al punto di danneggiarli per un fattore competitivo.

Per ottenere una giustizia climatica è necessario l’aiuto di tutti, ma soprattutto bisogna essere coscienti delle conseguenze delle nostre azioni, riflettere prima di compierle ed analizzarle dopo averle attuate. Insomma, bisogna pensare al bidone della plastica anche il martedì mattina.

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