Una tra le minoranze più perseguitate al mondo: i Rohingya
DI LAURA NOAH PESAVENTO
05/01/2021
Considerati "una minaccia alla razza e alla religione", immigrati illegali o anche semplicemente troppo alieni per una possibile convivenza pacifica, i Rohingya provano sulla propria pelle le conseguenze estreme del nazionalismo etnico-religioso.
Rohingya: “il gruppo etnico meno voluto al mondo”
La discriminazione ininterrotta verso i musulmani Rohingya è da sempre alimentata dal nazionalismo etnico-religioso che esalta la maggioranza bamar e buddista (più del 70% della popolazione) e che li considera una “minaccia alla razza e alla religione”. Questi non si sono mai visti riconoscere la cittadinanza birmana o la garanzia dei loro diritti fondamentali, come l'accesso all'istruzione secondaria o la libertà di movimento, e sono stati esclusi per legge dalle più di 100 etnie che abitano il Myanmar, stato indipendente dal Regno Unito dal 1948 e precedentemente chiamato Birmania fino al 1989. Tuttavia, gli “apolidi” Rohingya non sono immigrati illegalmente e recentemente dal Bangladesh e/o terroristi islamici come sostiene il governo, ma vivono nel Rakhine, una delle 14 divisioni amministrative dell’Unione del Myanmar situata vicino al Bangladesh, da quando i colonizzatori portoghesi li deportarono come schiavi dal Delta del Bengala. Tuttavia, per la maggior parte sono, appunto, apolidi poiché non possiedono i documenti richiesti dalla legge del Myanmar sulla “cittadinanza delle etnie non riconosciute in modo ufficiale”.
La crisi di questa minoranza è esplosa durante la transizione dalla dittatura militare, durata settant'anni (1962-2012), verso la democrazia, con un aumento degli attacchi razzisti contro i musulmani incitati dai gruppi fondamentalisti buddisti, dei quli il più influente è il MaBaTha. Nel lontano 2013 Human Rights Watch è la prima a denunciare la presenza di “crimini contro l’umanità” e di “pulizia etnica”. In seguito, nel 2014 le autorità birmane non hanno incluso i Rohingya nel primo censimento nazionale e hanno impedito loro di votare alle prime elezioni libere del 2015.
Quando l'esodo divenne biblico
Il 2017 segna l'ultimo capitolo della lunga storia di violenze subìta dalla minoranza musulmana, contrassegnato dal lancio di una campagna militare volta alla loro definitiva eradicazione. Sono state condotte delle operazioni di rastrellamento dei Rohingya a fini di rappresaglia contro gli attacchi terroristici orditi dall’organizzazione Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) ai danni delle forze armate nazionali, conosciute con l’appellativo di Tatmadaw. L'ARSA è definito dalle autorità birmane come un gruppo terroristico, mentre questo nega di avere legami con organizzazioni terroristiche internazionali e sostiene che la sua lotta sia finalizzata a liberare i Rohingya dalle persecuzioni del governo birmano. Durante questo conflitto, le pratiche barbare hanno contemplato anche il ricorso ad esecuzioni sommarie e stupri su vasta scala, come dimostrato poi dal rinvenimento di numerose fosse comuni e di interi villaggi dati alle fiamme allo scopo di cancellare qualsiasi evidenza dei crimini perpetrati dal Tatmadaw. Ciò è in netto contrasto con la versione ufficiale del governo che afferma che sia stata la minoranza a provocare i devastanti incendi al fine di ottenere la solidarietà internazionale e beneficiare degli aiuti dati dai paesi musulmani.
In poche settimane più di 700 mila civili Rohingya lasciarono le proprie case per rifugiarsi al di là della frontiera, principalmente nei campi profughi allestiti dal governo di Dhaka, di cui il più “popoloso” è nel distretto di Cox's Bazar. Tuttavia, dopo più di un anno, le autorità bangladesi hanno chiesto il loro rimpatrio, dichiarando insostenibile la situazione dei campi profughi. Sono quindi iniziate le discussioni per un accordo bilaterale, ma il piano è stato oggetto di proteste internazionali da diversi gruppi per la difesa dei diritti umani poiché i rimpatri non sarebbero stati sicuri, volontari e dignitosi. Anche gli stessi Rohingya si sono opposti perchè, nonostante le intollerabili condizioni di vita nei campi profughi, la perplessità causata dall’idea di dover tornare in un paese il cui governo non ha voluto ammettere le atrocità commesse era diffusa. Infatti, il governo del Myanmar non ha assicurato ai Rohingya un cambiamento delle condizioni che li hanno spinti a fuggire e si è persino rifiutato di collaborare a qualsiasi indagine internazionale sulle violenze di massa. Inoltre, si è rifiutato di considerare le proprie forze militari responsabili delle violenze, anche se l’ONU, dopo un’indagine indipendente del 2018, ha dichiarato che i capi dell’esercito del Myanmar dovrebbero essere processati per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.
Al momento, sono circa un milione i musulmani originari di Rakhine a vivere nella città-campo-profughi allestita dalle autorità bangladesi al di là della frontiera, mentre in Myanmar ne restano circa 300.000, 130.000 dei quali in campi profughi che Human Rights Watch ha definito “prigioni a cielo aperto”. Questi vivono in una condizione di crescente indigenza, ghettizzazione e de-umanizzazione rispetto al resto della popolazione, che, nel complesso, è parsa avallare la campagna di “depurazione” del paese dalla presenza di un gruppo etnico percepito come alieno all’identità nazionale del Myanmar. Nel paese, la minoranza è tuttora sistematicamente perseguitata e vive sotto la minaccia del “genocidio”, rivela una missione indipendente dell'ONU, ai cui investigatori è stato negato l'accesso nel paese.
Essendo la possibilità di ricevere informazioni da osservatori indipendenti nel Rakhine estremamente limitata, la grave situazione è stata confermata da fonti non ufficiali: testimonianze degli esuli, inchieste di operatori umanitari, reportage giornalistici e prove satellitari. Tutte queste raccontano di uccisioni sommarie, villaggi rasi al suolo, stupri, sparizioni, arresti arbitrari, torture, maltrattamenti, espropriazioni, persone affamate e lasciate senza cure, tanto che i Rohingya sono considerati «la minoranza più perseguitata al mondo».
Il ruolo di “The Lady”
Figlia di Aung San, generale che fondò la versione embrionale dell'attuale esercito Tatmadaw e che ebbe un ruolo di primo piano nel percorso di decolonizzazione del Myanmar, e di Khin Kyi, che intraprese una brillante carriera politica dopo la morte del marito e che fu la prima donna ambasciatrice del Myanmar.
Aung San Suu Kyi prende in mano la situazione birmana come leader politica che lotta per instaurare la democrazia multi-partitica nel suo paese e come leader del partito National league for democracy durante le violente proteste anti-dittatura avvenute a fine anni '80. Questa sua fervente attività le costa numerosi arresti domiciliari, ma la comunità internazionale la descrive come “un'eroina della democrazia” e le riconosce il premio Nobel per la pace. Nel 2010 Suu Kyi, grazie alle pressioni internazionali, viene liberata. Nel 2012 il suo partito vince le elezioni parlamentari e nel 2015 vince anche le nuove consultazioni così che Suu Kyi forma un esecutivo, rieletto nuovamente nel 2020. Tuttavia, si tratta di un governo bicefalo, dove la “testa militare” prevarica su quella “civile”: i generali hanno molto potere e Suu Kyi è leader de facto, una sorta di primo ministro, consigliere di stato, ministro degli esteri e ministro dell’ufficio del presidente. Infatti, secondo la Costituzione del 2008, non può diventare presidente e potrebbe essere destituita dall'esercito in qualsiasi momento. Sembrerebbe questa la motivazione, unita alla paura di perdere il consenso dell’elettorato bamar buddista, che ha spinto la leader a non condannare le violenze subìte dai Rohingya e a rimanere muta sull’intolleranza religiosa e sugli scontri settari. A tal proposito, l’indagine dell'ONU ha macchiato l’immagine dell’ex paladina dei diritti umani, volendo evidenziare non solo la sua connivenza con gli abusi inflitti ai Rohingya, ma anche la sua serie di sforzi messi in atto per minimizzare i crimini del Tatmadaw, inquinare le prove degli eccidi e ostacolare l’ingresso di osservatori internazionali.
L'immobilità internazionale
Il Myanmar è Stato membro dell'Asean (Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico), che è stata criticata per l'omertà sulla condizione dei Rohingya. Tale inazione deriva principalmente dall’osservanza del principio di non interferenza negli affari interni degli Stati membri, che quindi impossibilita una qualsiasi azione collettiva nel territorio del Myanmar. L'unica presa di posizione riguarda la richiesta che alcuni Stati membri hanno fatto per l'esclusione del paese dall'Asean, visto il suo scarso rispetto dei diritti umani.
Sul fronte della giurisprudenza internazionale, è bene evidenziare che la responsabilità di proteggere è un principio del diritto internazionale che mira a prevenire o interrompere atti classificabili come genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità. L’obbligo di proteggere la popolazione da tali atti ricade soprattutto sui singoli Stati. Tuttavia, se un paese non vuole o non è in grado di proteggere il suo popolo, allora la responsabilità deve essere assunta dalla comunità internazionale. A tal fine, quest’ultima può adottare misure diplomatiche, umanitarie e altri mezzi pacifici (come l'embargo di armi o le sanzioni economiche) o ricorrere a misure coercitive tramite il Consiglio di sicurezza dell’ONU, responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Finora, i tentativi di alcuni attori di portare la questione davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU si sono scontrati con i veti decisivi di Cina e Russia, che, in tal modo, continuano ad accreditarsi come interlocutori diplomatici privilegiati del Myanmar. Dall'altra parte, gli USA hanno condannato le forze di sicurezza del Myanmar per la violenza in corso, hanno sollecitato il Consiglio di sicurezza a fare pressione sul governo birmano e hanno sospeso la loro cooperazione militare con il Myanmar, invitando anche gli altri Stati a fare lo stesso. L'Unione Europea, invece, ha adottato un nuovo programma da 5 milioni di euro a sostegno dei profughi Rohingya in Bangladesh per sostenere l’attuazione dell’accordo bilaterale di rimpatrio, contribuendo alla creazione di tutte le condizioni necessarie per il rientro volontario, dignitoso e sicuro in Myanmar.
Un'altra possibile azione internazionale riguarda l'attivazione di una formale procedura di incriminazione nei confronti del Myanmar alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, che può perseguire stati e individui per il crimine di genocidio, così come postulato dalla Convenzione contro il Genocidio del 1948. Tuttavia, questa risulta una scelta impopolare per gli oltre 150 governi che riconoscono la Convenzione ed il ruolo della Corte per la paura di una possibile ripercussione economica, dato il ricco business scaturito dalla riapertura del Myanmar agli investimenti e alle merci straniere dopo mezzo secolo di totale isolamento.
Davanti alla Corte internazionale di giustizia
La situazione era bloccata fino a quando il Gambia, un piccolo paese africano prevalentemente musulmano, appoggiato da diversi altri paesi a maggioranza musulmana, ha presentato un rapporto sulle violenze commesse dal governo del Myanmar. Così, la Corte internazionale di giustizia ha deciso di esaminare il caso e di istruire un'inchiesta per "genocidio".
In risposta, nel dicembre 2019 Aung San Suu Kyi si reca all'Aia per difendere le misure prese dal suo governo contro la minoranza musulmana. Qui definisce le accuse di genocidio rivolte al governo birmano come «un quadro incompleto e fuorviante della situazione nel Rakhine». Inoltre, afferma che gli interventi dell’esercito birmano erano stati una risposta agli attacchi compiuti dai ribelli Rohingya: «Abbiamo a che fare con un conflitto armato interno, iniziato da attacchi coordinati dall’Arakan Rohingya Salvation Army, a cui le forze di difesa del Myanmar hanno risposto». Nel suo intervento ha anche aggiunto come non si possa escludere «che ci sia stata una risposta sproporzionata da parte dei membri dell’esercito e che ci siano state in alcuni casi violazioni del diritto internazionale umanitario».
La Corte, comunque, si è espressa all'unanimità contro i reati commessi dalle forze militari birmane in Rakhine. Sebbene la sentenza non sia vincolante, crea di fatto una base giuridica che potrebbe giustificare l’imposizione di sanzioni e mettere il Myanmar di fronte a una maggiore pressione internazionale. Infatti, siccome il paese non è l’unico teatro di scontro al mondo tra minoranze islamiche e governi nazionali, la posizione della Corte riguardo i Rohingya crea un precedente importante. Tuttavia, l'impatto di queste misure provvisorie è controbilanciato dalla Cina con i suoi progetti della Belt and Road Initiative e ciò dimostra come il “principio di non interferenza” cinese continui a scontrarsi con gli strumenti delle relazioni internazionali.