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Welfare, famiglia e parità di genere. Intervista a Chiara Saraceno

DI GIORGIA SCOGNAMIGLIO

08/04/2021

Nelle società occidentali del dopoguerra la famiglia ha svolto un ruolo centrale nella tutela dei bisogni.  A partire dagli anni ’70, con la crisi del modello fordista e la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, l’equilibrio Stato-mercato-famiglia è entrato in crisi, richiedendo una trasformazione del welfare. In Italia, dopo 60 anni, l’assistenza assorbe solo il 3% della spesa pubblica, attribuendo quindi alla famiglia (e in particolare alla madre) ancora un ruolo centrale. In questo modo, il welfare va a sovrapporsi alle diseguaglianze esistenti, rischiando talvolta di essere discrezionale. “La garanzia dei diritti dipende dalla famiglia in cui ci si trova e dalla categoria in cui si è collocati” – protesta Chiara Saraceno durante la conferenza di Hikma del 28 marzo, “Il Futuro del Welfare State”. È una delle sociologhe italiane di maggior fama, conosciuta per i suoi studi sulla famiglia, sulla questione femminile, sulla povertà e le politiche sociali. L’abbiamo intervistata per approfondire un aspetto del welfare poco discusso tanto nelle sedi pubbliche che private, quello relativo alla condizione femminile e alle pari opportunità di genere.
Anche se negli ultimi anni il livello di partecipazione delle donne al mercato del lavoro, specie tra le nuove generazioni, si è avvicinato a quello europeo, l’Italia continua a presentare i più elevati tassi di inattività femminile, soprattutto per le donne con carichi famigliari, bassi livelli di istruzione e residenti nel Mezzogiorno.


Il welfare italiano pare non essersi adattato ai mutamenti sociali che si sono verificati a partire dagli anni ’70, soprattutto nell’ambito della spesa a favore delle famiglie con figli.

Alcune caratteristiche del passato sono rimaste. Il fatto che privilegi i trasferimenti monetari, rispetto ai servizi, senza essere neppure troppo efficienti, perché “a pioggia” e frammentati. E il fatto anche che offra poco sostegno al lavoro di cura e in generale alle famiglie, sia quelle con figli che quelle in cui esistono problemi di disabilità o fragilità. Nel caso delle famiglie con figli abbiamo avuto negli anni una serie di strumenti che però sono stati o molto categoriali. Una categorialità non sempre giustificabile, come nel caso degli assegni per nucleo familiare, riservati esclusivamente alle famiglie il cui reddito complessivo familiare è per almeno il 70% da reddito da lavoro dipendente. L’altra grossa fonte di sostegno sono le detrazioni fiscali che però escludono gli incapienti, ovvero coloro che hanno un reddito troppo basso per poterne beneficiare. Accanto a ciò, ci sono i bonus bebè, sempre molto frammentati e poco efficaci. Quello che non si capisce è che i figli durano a lungo e in Italia moltissimo di più, perché non hanno accesso a benefici autonomi e i genitori sono considerati responsabili del mantenimento per la vita. In questo contesto, è molto importante la riforma dell’assegno unico per i figli (n.d.a. una misura unica, che sostituisce le varie misure indirizzate finora alle famiglie). Lentamente, negli ultimi anni, anche sotto gli stimoli dell’Ue e dei movimenti delle donne, si sta riflettendo. Però l’Italia arriva un po’ in affanno.


L’Italia è molto indietro nel contesto internazionale per la fornitura di servizi alla famiglia, con un’offerta enormemente differenziata sul territorio nazionale, andando ad alimentare le diseguaglianze esistenti.

Mancano moltissimo i servizi, per la prima infanzia in particolare. Comparativamente siamo messi abbastanza bene, siamo tra i paesi che hanno un livello di copertura piuttosto elevato nella scuola per l’infanzia, consentendo quasi l’universalizzazione. Anche se, purtroppo, nel Mezzogiorno esistono ancora le scuole per l’infanzia a tempo parziale, senza mensa e solo la mattina. Per i bambini tra 0 e 3 anni, invece c’è pochissimo e in modo molto diseguale a livello nazionale (n.d.a per gli asili nido, la copertura della domanda è del 3% in Calabria e 29% in Emilia-Romagna). Non solo, la copertura è del 23-24% mettendo insieme pubblico e privato, mentre il pubblico - mettendoci dentro anche quello convenzionato fatto da cooperative e finanziato dal pubblico - non arriva al 13%. Nel privato ci sono prezzi di mercato, quindi al nido vanno i figli dei ceti medio-alti, il che crea problemi non solo alla conciliazione ma alla riduzione delle diseguaglianze tra bambini. Dovrebbero essercene di più laddove c’è più povertà, invece ce ne sono di meno.


La famiglia è ancora intesa come organismo “unitario”, nonostante siano ormai assodati gli squilibri al suo interno. I sostegni sono indirizzati alla famiglia nel suo complesso, con un impatto indiretto sulla condizione femminile, senza che questa rappresenti mai l’obiettivo centrale. Per questo, le politiche di pari opportunità di genere si sono tradotte esclusivamente in politiche di conciliazione lavoro-famiglia.

Le politiche di conciliazione sono messe nel ministero della famiglia, non delle pari opportunità. Quello delle pari opportunità è un problema che viene sempre dopo, perché non considerato così importante. La questione della conciliazione è cruciale per le donne, sicuramente. Ma le discriminazioni, i problemi che le donne incontrano nell’accedere al mercato del lavoro, nella politica, o nell’essere riconosciute nelle loro competenze prescindono dalla questione della conciliazione. Puntare solo sul problema degli asili nido cancella tutto ciò che avviene, compreso nel governo Draghi. Le donne non le vedo, anche quando hanno le competenze.


Del resto, anche nel Recovery Plan, l’obiettivo “Parità di genere” presentato nelle prime bozze, è scomparso del tutto per diventare una priorità trasversale.

Trasversale è una cosa da un lato bella perché significa che deve essere presente dappertutto, ma così rischia di sparire e di perdere di concretezza.  Gran parte dei finanziamenti andranno al digitale e all’ambiente, cose importantissime, ma che amplieranno le diseguaglianze, perché allo stato (purtroppo) sono più occupazioni “maschili”, perché le donne ancora non prendono alcune specializzazioni. L’Italia è uno dei paesi con maggiore divario di genere in questo: è un problema di socializzazione, di scoraggiamento, di non ricevere sufficienti incentivi. Vanno bene le politiche per incentivare le ragazze giovani a non scoraggiarsi rispetto allo STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), però, nel frattempo, non possiamo dare per scontato che questi problemi non esistano. Bisogna creare e investire nelle infrastrutture sociali che aumentano il benessere di tutti ma creano anche domanda di lavoro.


Il sociologo Esping-Andersen ha parlato di una “mascolinizzazione” in atto della vita femminile, sottolineando la difficoltà, invece, nel realizzare il contrario. Un tentativo in questa direzione è il congedo parentale per gli uomini.

In Italia, dal punto di vista formale non è male perché c’è il congedo di maternità, c’è il congedo di paternità e c’è il congedo genitoriale (10 mesi per la coppia, ma nessuno dei due può prenderne più di 6, quindi in teoria c’è una quota riservata per entrambi). Il problema è che il padre prende il congedo genitoriale solo quando la mamma non è lì. Le ricette internazionali mostrano che ci vogliano due condizioni perché i padri prendano un periodo sostanzioso di congedo. Ci vuole innanzitutto una quota riservata e un incentivo, ad esempio se il padre ne prende almeno 3 ha diritto ha un mese in più, così che da 10 diventano 11. La seconda condizione è la remunerazione. Secondo le ricerche deve essere pagato almeno tra il 50 e il 60% dello stipendio perso. Solo se pagato abbastanza bene i padri possono essere incentivati a richiedere il congedo legittimamente anche se i datori di lavoro non vogliono. In Germania è pagato come il congedo per malattia, quindi intorno al 65% come tetto massimo. In Italia, invece, è pagato solo per il 30%, solo per i primi 6 mesi e solo se fruiti nei primi 3 anni di vita. Di solito, aimè, il reddito dei padri è più alto di quello delle madri e con una riduzione di reddito così grossa, a fronte della crescita della famiglia, bisogna essere anche un po’ masochisti, oltre che avere un modello culturale.


Un modello culturale, e quindi familiare, in cui è esclusivamente la donna ad avere responsabilità di cura, in parte legittimato dalle politiche di conciliazione lavoro-famiglia.

I figli non sono solo delle mamme ma anche dei papà e non solo dal punto di vista del reddito, ma anche della cura. Questo va pensato. Non dimentichiamo che c’è un 50-60% della popolazione italiana, maschi e femmine, che ritiene che gli uomini non siano adatti alla cura. Siamo in un Paese in cui un padre accudente è chiamato “mammo”, magari in modo un po’ dispregiativo, e in cui si dice che il bambino soffra se la mamma lavora. Così come le mamme che vanno a lavorare hanno dovuto superare delle resistenze culturali, anche i padri devono farlo. Ma devono anche essere incentivati, senza rischiare di perdersi dal punto di vista finanziario.


Gli equilibri demografici su cui si sono costruiti i welfare sono cambiati. In Italia, a parità di diritti garantiti, l’invecchiamento della popolazione richiederà un ammontare di spesa pubblica crescente e quindi una crescente pressione fiscale che potrebbe rendere il welfare insostenibile.

In un contesto di bassa fecondità generale, le società che si sono attrezzate a questa novità con più servizi, congedi, movimenti verso una maggiore parità nella divisione del lavoro di cura, sono i paesi in cui si può “fare” con più agio. Se vogliamo sostenere le scelte di fecondità, che devono essere libere, dobbiamo sostenere le famiglie con gli assegni familiari. Riconoscere che chi fa figli ha un costo in più e che lo sostiene per la collettività. Ma anche sostenere la possibilità delle donne non solo di entrare ma di restare nel mercato del lavoro che tra l’altro è anche un fatto protettivo contro la povertà (n.d.a. in Italia, una donna su 4 esce dal mercato del lavoro per cause familiari). Più donne nel mercato del lavoro significa anche aumento della domanda di lavoro, non diminuzione, perché un po’ del lavoro gratuito entra nel circuito del lavoro remunerato, si allarga la base imponibile, perché più persone possono pagare le tasse, e quindi aumentano le risorse del bilancio dello Stato. È un investimento, non una spesa a fondo perduto, ormai a livello internazionale è dato per assodato.

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