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In Africa, il Corno non è sempre dell'Africa

DI MARGHERITA CESERANI

16/02/2023

Il continente africano attira l'attenzione di vari attori esterni ormai da diversi secoli: l’Ottocento ha segnato la storia africana con lo “scramble for Africa” europeo, nella seconda metà del Novecento il Corno d’Africa è diventato un'arena per la lotta globale tra Unione Sovietica e Stati Uniti, a partire dal 2000 la Cina ha rafforzato le relazioni sino-africane. Tuttavia, non sono solo le grandi potenze a contendersi l’influenza nel Corno, ma negli anni è emersa una competizione regionale tra i Paesi vicini del Medio Oriente. Data la sua posizione strategica per il passaggio tra Europa, Medio Oriente e Asia minore, mantenere il controllo su Eritrea, Gibuti e Somalia è una questione che riguarda anche la Penisola araba.

La regione del Corno d’Africa è conosciuta nel mondo per la sua posizione strategica nel collegare per via marittima le rotte tra Mar Mediterraneo, Mar Rosso, Golfo di Aden, Mar Arabico, Oceano Indiano e quindi intessere le relazioni tra Europa, Medio Oriente e Asia minore. Al contempo, tuttavia, la regione è caratterizzata dalla frammentazione identitaria sia esterna che domestica, oltre che da una forte volatilità della sicurezza. Negli ultimi anni si è spesso parlato della dicotomica competizione tra Cina e Stati Uniti nel Corno, senza però considerare altre forme di influenza regionale provenienti dalla vicina Penisola Araba, che vede il riproporsi della contrapposizione tra Arabia Saudita ed Iran, l’alleanza saudita-emiratina in contrasto alla Turchia, oltre che alla politica di sovversione iraniana operata contro Stati Uniti ed Israele. "In Africa, il Corno non è sempre dell'Africa", cosa spinge i Paesi mediorientali nel Corno?


La dimensione strategica

Il Corno d’Africa è un punto logistico perfetto per l’apertura di strutture portuali e basi militari: il suo territorio si presta al passaggio di armi per il combattimento in altri Paesi nella regione, come in Yemen, e offre la possibilità di reclutamento tra la popolazione africana.

L’Iran, ad esempio, non è interessato allo sviluppo di relazioni economico-commerciali (sebbene utili a far uscire Teheran dal suo isolamento), ma grazie ai network costruiti nel Corno riesce in primo luogo a spostare l’attenzione dei Paesi arabi su quest’area, quindi diminuire la pressione sulla regione mediorientale; in secondo luogo, la sua presenza è dovuta al tentativo di incanalare persone verso gruppi estremisti che forniscono servizi di intelligence ed operano violenza contro gli avversari della Repubblica Islamica (tra cui USA e Israele). Nel 2008, grazie all’alleanza con l’Eritrea, ha ottenuto due basi portuali vicino al Mar Rosso, una a Massawa e una ad Assab, il secondo funzionale anche alla difesa di una raffineria di petrolio iraniana di epoca sovietica. Anche gli accordi con la Somalia hanno garantito una base per l’esportazione di petrolio nel continente africano con un duplice scopo: aggirare la sanzioni economiche americane e ottenere entrate per il finanziamento di gruppi terroristici, come la milizia wahhabita al Shabab. Tuttavia, la continua ricerca di autonomia dell’Eritrea l’ha portata a terminare la cooperazione con questo Paese nel 2016, seguita dall’espulsione delle navi da Assab, dove sono state sostituite da quelle emiratine e saudite e dall’invio di nuovi fondi di finanziamento. In questo caso, la coalizione della Penisola araba si è approcciata al Corno d’Africa in funzione dell’intervento nella guerra in Yemen al fianco di Abdrabbuh Mansur Hadi. L’Arabia Saudita ha elargito alla Somalia $50.000, l’Eritrea ha concesso all’EAU la base militare ad Assab e la Somalia a Berbera, all’Arabia Saudita è stata garantita l’apertura di una base in Gibuti. Tuttavia, è errato pensare che gli stati del Corno offrano un legame stabile ed efficace, viste le condizioni di precarietà domestica. Al contrario, la questione della distensione delle relazioni tra Eritrea ed Etiopia gioca un ruolo incisivo nel non riuscire a garantire un accesso sicuro ai porti, che potrebbe favorire l’arrivo di maggiori investimenti sia di tipo militare sia commerciale. Ciononostante, l’EAU ha provato a promuovere il dialogo, pensando che la riconciliazione potesse essere una soluzione win-win per tutte le parti. Difatti, gli stati del Golfo hanno fortemente investito nello sviluppo logistico del Corno mediante la costruzione di infrastrutture di collegamento ferroviario, aeroporti e strutture portuali, come a Bosaso, tra il Puntland e le regioni del sud della Somalia. Infine, le basi in Eritrea, Gibuti e Somalia non sono servite solo come basi militari per la Guerra in Yemen, ma la dimensione strategica ha riguardato anche la modulazione del flusso migratorio irregolare dal Corno alla Penisola araba, secondo la cosiddetta Rotta orientale.


La dimensione ideologica

La Turchia è stata spinta a un riorientamento verso l’Africa subsahariana dopo l’allontanamento dai suoi tradizionali alleati, Egitto e Siria. In particolare, la strategia turca nel Corno assume le caratteristiche di quella cinese durante la Guerra Fredda, cioè cerca di inserirsi nella frattura coloniale tra africani ed europei. Ankara si esprime con toni benevoli e altruistici nel tentativo di rinnovare la propria politica estera attraverso la reinterpretazione della storia ottomana. L’influenza nel Corno procede, quindi, in modo consensuale e propone dal 2011 un legame culturale condiviso, di stampo religioso. Erdogan aspira alla leadership del suo Paese all’interno del mondo musulmano, con una visione multicomprensiva che dalla Somalia prevede l’espansione a tutto il continente africano. La “special relationship” con Mogadiscio è basata su accordi economici, militari, e soprattutto sulla diplomazia umanitaria. Inoltre, il soft power turco punta sul sostegno politico ai Fratelli Musulmani, che vengono aiutati nella creazione di un loro network nel Corno. L’instaurazione di relazioni di fiducia con i Paesi del Corno fa entrare la Turchia in competizione con il potere normativo europeo, cioè sfruttando il sentimento anticoloniale si apre il mercato africano e si stringono accordi commerciali che avvantaggiano Ankara; allo stesso tempo la leadership turca rafforza la sua influenza a scapito delle altre potenze regionali mediorientali. Tra gli interessi turchi spunta l’elezione della Turchia a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 2008, punto di partenza per la successiva organizzazione ogni 5 anni del Summit Turchia-Africa, dove viene discussa la cooperazione su problematiche comuni con i Paesi africani.

Anche l’Iran si è avvicinato al Corno per la promozione religioso-ideologica, che si intreccia con l’indottrinamento delle reclute militari. Di conseguenza, è emersa un’azione di proselitismo sciita, tanto è vero che l’arruolamento in queste organizzazioni viene facilitato dallo stanziamento di borse di studio che permettono agli africani di apprendere all’estero (ad esempio a Qom, considerata luogo sacro della fede sciita). Un’ulteriore tattica di conversione è l’organizzazione di matrimoni di massa, come avvenuto nel 2015 in Somalia durante la ricorrenza del Profeta Mohammed. Teheran ha anche investito nella costruzione di moschee, centri culturali ed educativi per diffondere il suo messaggio islamico. Malgrado ciò, tradizionalmente il Corno è noto per seguire la fede sunnita e la diminuzione dell’influenza strategica ha avuto ricadute anche su quella religiosa. In più, la natura autonoma e secolare del governo eritreo ha reso il Paese impermeabile all’indottrinamento sciita operato da Teheran. L’esportazione del modello come avanguardia rivoluzionaria musulmana ha naturalmente messo in allarme l’Arabia Saudita, nemico di vecchia data dell’Iran, che per contrastare la diffusione esponenziale del fondamentalismo khomeinista ha deciso di ricorrere al proprio peso economico.


La dimensione commerciale

Infine, la dimensione commerciale ha investito soprattutto il settore agricolo a garanzia della sicurezza alimentare nella Penisola Araba ed è stata spesso legata alla questione della pirateria al largo delle coste africane, che ha ricadute negative rilevanti per il commercio mediorientale. Se si pensa che nel 2019 18.880 navi hanno affrontato la rotta verso il Mediterraneo, di cui 27,4% trasportanti petrolio, si comprendono ancora meglio gli interessi del Golfo Persico. Al fine di contrastare il dirottamento delle navi, nel 2001 l’Arabia Saudita è entrata a far parte della Combined Task Force 150 che esegue operazioni di sicurezza marittima, a cui è seguita nel 2009 l’operazione antipirateria Combined Task Force 151, alla quale partecipano Turchia, Bahrain, e Kuwait. Entrambe le forze multinazionali operano in coordinamento con altri stati e missioni, ad esempio EUNAVFOR, e cercano di intercettare le attività illegali sulle coste somale di gruppi criminali e terroristici, assicurando il transito alle navi commerciali.

L’evidenza dimostra che dal punto di vista africano le relazioni con il Medio Oriente sono dettate dalla diplomazia delle transazioni, cioè dal bisogno delle leadership del Corno di sostegno economico per mantenersi al potere stabilmente, che incontra le richieste mediorientali di infrastrutture strategiche. Questo fa sì che nel momento in cui diminuiscono le pressioni si possa aprire un nuovo periodo di riflessione circa le proprie alleanze. L’Eritrea del 2016, che ha visto un cambio di direzione da Iran a  EAU e Arabia Saudita, offre un perfetto esempio di come i Paesi africani si aprano agli investimenti stranieri e siano disposti a cambiare partner a seconda delle proprie esigenze. In questo caso, il continuo cambiamento di partner economici è stato un tentativo di ridimensionare la presenza delle potenze straniere. Poi, nel 2018 l’Eritrea ha iniziato a beneficiare della mitigazione delle sanzioni americane, grazie all’elezione di Abiy Ahmed Ali in Etiopia, che ha favorito la distensione dopo venti anni di conflitto. L’Eritrea, che non aveva goduto di buone relazioni diplomatiche con nessuno dei Paesi del Corno, aveva anzi sospeso la sua partecipazione all’Unione Africana e si era ritirata due volte dall’IGAD. Sembrerebbe che il miglioramento delle relazioni con gli altri Stati della regione bilanci la riduzione dei fondi ed eviti un nuovo isolamento: Isaias Afewerki, infatti, nello stesso anno ha richiesto un incontro con i suoi pari di Eritrea e Somalia al fine di discutere un’eventuale cooperazione regionale. Ciononostante, i rapporti regionali rimangono ancora deboli ed instabili, pertanto il Paese continua a necessitare dell’appoggio di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per sostenersi economicamente. Il fatto che nel 2018 l’EAU abbia dichiarato l’intenzione di finanziare la costruzione di un condotto petrolifero tra Etiopia ed Eritrea sottolinea anche la volontà di questa potenza regionale di presentarsi al mondo come peace keeper e peace maker nel Corno.


Conclusioni

La crescente presenza delle potenze regionali nel Corno d’Africa riesce a plasmare i conflitti interni alla regione, ma al contempo non estremizza le posizioni africane. L’equilibrio di potenza ha sicuramente favorito la crescita eritrea e al contempo non ha portato a un’escalation della violenza nel conflitto con la vicina Etiopia. La Penisola Araba ha cercato di ritagliarsi un ruolo di peace maker in modo tale da diffondere un’immagine positiva in contrasto alla presenza sia turca che iraniana. Tra le due potenze, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti preferiscono ancora concentrare le proprie risorse contro Teheran, che appare più minacciosa dal punto di vista strategico. Tuttavia, il radicamento turco in Somalia può essere ritenuto un successo, e in caso Ankara decidesse di investire maggiormente nella sua presenza militare nel Corno, i rischi per la coalizione araba porterebbero a nuovi sviluppi nelle relazioni con la Turchia.

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